sabato 15 dicembre 2007

L'altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata

Se si guarda alla storiografia ufficiale, quella insegnata ancora nelle cosiddette “scuole dell’obbligo”, si comprende come le nuove generazioni, ormai da piú di un secolo, siano state e siano educate con una serie di informazioni lacunose, spesso “di parte”, molte volte false. Cosí che delle tante vicende che compongono il racconto delle esperienze dei nostri padri abbiamo finito col farci un’idea che non corrisponde alla realtà e che continua a condizionare i nostri giudizi, non solo su quanto è accaduto, ma anche su quanto sta accadendo.

In verità, da alcuni lustri, si sono moltiplicati i lavori di “revisione storica”, ma essi restano appannaggio di pochi specialisti e appassionati. Tra questi lavori rientra il libro che qui segnaliamo: L’altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata.

In esso l’Autrice tratta alcuni importanti aspetti di quella leggenda che vorrebbe far credere che l’unità d’Italia fu un appassionato lavoro di amor patrio fortemente contrastato dalla Roma reazionaria e papalina che vedeva come fumo negli occhi la libertà degli Italiani. Sulla scorta dei documenti dell’epoca, si compone invece un quadro complessivo nel quale i soggetti principali sono il liberalismo antireligioso piemontese che da quella sparuta minoranza che fu, riuscí a violentare il sentimento religioso della maggioranza dei Piemontesi e degli Italiani; l’odio contro ogni istituzione cattolica e la persecuzione sistematica a cui vennero sottoposti la Chiesa e i cattolici; l’arrivismo e l’ingordigia di potere di uomini politici che ancora oggi affollano le nostre piazze con le loro effigi di pietra.

Se è comprensibile che il passato debba essere rivisto con un certo spassionato distacco, non è accettabile che questo avvenga quando esso segna ancora fortemente il presente e il futuro prossimo. Leggendo questo libro, che parla di vicende apparentemente “vecchie”, è come se sotto gli occhi del lettore scorresse la falsariga di quanto è accaduto alla Chiesa e dentro la Chiesa da un quarantennio ad oggi. Con la differenza che la lotta alla Chiesa e alla Religione, allora condotta da tutti i suoi nemici dichiarati, oggi viene condotta dai suoi falsi amici utilizzando le stesse argomentazioni e quasi le stesse tecniche.

Fu in nome della libertà religiosa che si volle allora la fine dello Stato Pontificio, mentre in realtà si voleva la demolizione della Religione; ed è in nome della libertà religiosa che oggi si continua a perseguire la demolizione della Chiesa.

«Rifiutando la Rivelazione, i liberali non capiscono piú, e, non capendo, ritengono prive di senso le modalità dell’esistenza cristiana. I liberali non si limitano a non capire: giudicano ciò che non capiscono, lo condannano e lo negano. Ritengono assolutamente vero e giusto solo quanto è ritenuto tale dalla Ragione, che inevitabilmente finisce col coincidere con la loro ragione
«… l’ideologia liberale non rinuncia all’assoluto, cambia semplicemente il luogo in cui cercarlo e da Dio passa al Progresso. Appellandosi al progresso, e quindi al continuo cambiamento verso il meglio, il pensiero liberale trova una nuova fede e una nuova ragione di vita: la fede nella mancanza di assoluto. I liberali negano «in assoluto» la possibilità per l’uomo di fare scelte «assolute». La contraddizione è evidente e tuttavia sono in molti a non rendersene conto. Rifiutata la fede nella Rivelazione perché ascientifica, si finisce per credere «scientificamente» alla (propria) ragione.» (pp. 142-143)

Questa lunga citazione aiuta a comprendere lo spirito che ha finito col prevalere nell’Autrice, via via che si è addentrata nello studio delle vicende storiche del secolo scorso. C’è da augurarsi che molti preti modernisti si soffermino a leggerlo… chissà, potrebbe aprirsi in loro uno spiraglio di luce.

ANGELA PELLICCIARI, L’altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata, Piemme Edizioni, Casale Monferrato, 2000, pp. 288, € 15,90.

[Leggi tutto...]

Meglio Opus Dei che gay E arrestatemi pure

di Gianluigi Paragone


Meglio gay che Opus Dei. C'è una foto - credo scattata durante una gaudente manifestazione pro Dico - che ritrae alcuni di questi ragazzotti con una finta mitra cartonata in testa, con la scritta "Meglio gay che Opus Dei". Ognuno ride per le battute che preferisce. A loro evidentemente piace molto visto che è uno sfottò parecchio di moda tra una certa sinistra anticlericale. E noi difendiamo il diritto di sfottere e ironizzare anche sulle cose più serie: siamo un Paese libero e con le spalle robuste. Mica come in certi Stati islamici dove se sfotti Maometto con una vignetta si scatena l'inferno e dove l'omosessualità costa la vita sul serio.

"Meglio gay che Opus Dei": se ne sono convinti, beati loro. Accade però che con quell'articoletto di legge che passa sotto il nome di norma anti-omofobia (termine che non c'entra un fico secco con il dibattito in corso) un rovesciamento dello slogan sarebbe punito. Cosa voglio dire? Questo: "Meglio gay che Opus Dei" si può dire, "Meglio Opus Dei che gay" no. Diventerebbe un'offesa, un pregiudizio, un atto di razzismo. Da condannare fino a tre anni di arresto. Perché il gay verrebbe preso come confronto dispregiativo.

Una potente lobby di cui non si parla

Ecco gli effetti del "pacchetto sicurezza" così come rischia di uscire dal Parlamento qualora passasse la linea della sinistra radicale e laicista. Capite bene che sarebbe delirante. Già oggi il potere discrezionale dei magistrati è infinitamente elastico, ci manca pure una norma del genere e poi possiamo metterci il bavaglio (prima che ce lo mettano gli altri). Non potremmo più criticare quelle politiche che spingono per i matrimoni gay o per le adozioni di figli da parte di coppie omosessuali. Non potremmo più criticare certe manifestazioni goliardiche, per non dire carnevalesche. Né potremmo spingerci a dire che oggi i gay sono una delle lobby più influenti in Europa.

Certo, qualcuno potrebbe non condividere il mio pensiero: ne parliamo. Ma ad armi pari.

Non che ai gay può essere permesso di annientare valori e principi sacri per la Chiesa, mentre per i cattolici che sostengono le loro idee scatta l'avviso di garanzia. Abbiamo derubricato la bestemmia, le offese al sentimento religioso e altro, ci manca solo che ora ripristiniamo i reati d'opinione. Perché? Un sospetto ce l'ho: perché più è arbitrario un potere (in questo caso quello giudiziario) e più si può colpire il nemico. La Chiesa e i cattolici ostacolano i Dico? Bene, montiamo una bella museruola e gliela mettiamo.

C'è chi obietta: è l'Europa che ce lo impone. E chi se ne frega.

L'Europa ha tante di quelle rogne da smazzarsi (a cominciare dal fatto che non riescono a far approvare uno straccio di Costituzione dai cittadini) e ci vengono a imporre trattati e decisioni calate dall'alto di chissà quali pensatoi? Ci facciano il piacere. L'Europa ha già rovinato le famiglie con l'euro, evitiamo di fargliele sfasciare del tutto con i matrimoni gay. Caspita, mi sto accorgendo che un articolo del genere rischierebbe di incorrere in sanzioni perché qualcuno ci potrebbe vedere pregiudizio discriminatorio contro gli omosessuali. Certo che no. La mia è un'opinione, pari a quella di chi si calza il cappello dei vescovi con la scritta "Meglio gay che Opus Dei". Perché lui dovrebbe avere più tutele di me?

Le lezioncine morali e le solite bugie

Quello della tutela dei gay sta diventando un tema di dibattito sbagliato nella prospettiva. Mi spiego. Dopo il voto della senatrice cattolica Paola Binetti (voto per il quale ha dovuto subire un processo imbarazzante) e dopo le minacce di Mastella di non approvare un testo definitivo contenente ancora quella norma, qualcuno a sinistra ha cominciato a spacciare per vera una fandonia: i cattolici sono contro la tutela delle minoranze discriminate e quindi anche dei gay. Poveri calimeri! Scusate, ma allora la Costituzione italiana che ci sta a fare? Per anni mi sono sorbito le lezioncine morali di chi considera la Costituzione una bibbia laica, una legge intoccabile in quanto perfetta e, soprattutto nella sua prima parte, sublime e ora dobbiamo tutelare le minoranze perché non ci sono norme adatte? Qui qualcuno sta raccontando qualche bugia. O la Costituzione ha le rughe oppure è ancora a tenuta stagna. Non può essere buona quando il governo Berlusconi decide di cambiarla, mentre è da rottamare se governano le ideologie della sinistra. E comunque, non sta scritto da nessuna parte che ci dobbiamo bere tutte le fesserie partorite dai geni di Bruxelles. Nel giro di breve tempo vedremo quale sarà la decisione di Prodi: se asseconderà la sinistra perseverando con la norma anti-omofobia oppure se prevarranno le ragioni riconosciute dalla maggioranza della gente. Qualora passassero le idee della sinistra, a rischiare non sarà solo il governo; sarà la libertà di opinione e la tenuta di valori largamente condivisi. Certe idee finora non sono passate perché la politica ha detto no; non vorremmo che ad aprire la breccia fosse come sempre la magistratura.

© Libero, 14 dicembre 2007

[Leggi tutto...]

Benedetto vara una nuova forza di peacekeeping, la famiglia

di Maurizio Crippa


Ambiente, nucleare, disarmo. Quando la maggior parte dei giornali fanno il titolo su altro, significa che Benedetto XVI ha toccato un punto nevralgico, che si vorrebbe evitare. Ma il titolo del messaggio per la Giornata mondiale della pace 2008, “Famiglia umana, comunità di pace”, chiarisce bene l’argomento che il Papa ha a cuore, sebbene non trascuri gli altri. Anzi, il Papa indica come “fondamentale”, sentire “la terra come ‘nostra casa comune’ e scegliere, per una sua gestione a servizio di tutti, la strada del dialogo piuttosto che delle decisioni unilaterali”. E non elude il nesso tra la gestione delle risorse e la giustizia sociale, ammonendo che non vanno “dimenticati i poveri, esclusi in molti casi dalla destinazione universale dei beni del creato”. Ratzinger capovolge però la prospettiva dei discorsi facili e generici, vagamente umanitaristi. Al centro, motore della pace e pietra di paragone della giustizia, c’è la famiglia. Se non si parte da qui, la partenza è sbagliata e i discorsi diventano retorica fumosa, o peggio.

E’ la novità di questa porta d’ingresso al grande tema della pace ciò che ha spiazzato la pigrizia dei giornali, ma che dovrebbe invece suscitare interesse. Benedetto XVI impone uno scatto di pensiero: “La prima forma di comunione tra persone è quella che l’amore suscita tra un uomo e una donna decisi a unirsi stabilmente per costruire insieme una nuova famiglia”. Pone la “famiglia naturale” come “prima e insostituibile educatrice alla pace”, non in forza di un apriori di fede, ma per realismo: “La famiglia è fondamento della società anche per questo: perché permette di fare determinanti esperienze di pace”.

Non è un testo dottrinale, è il messaggio di Capodanno che il Pontefice invia per riflessione al mondo, compresi i capi di stato e delle organizzazioni internazionali – anzi in primis: proprio a questo scopo Paolo VI aveva istituito nel 1968 la Giornata della pace. Qui c’è dunque il Ratzinger pastorale, concreto e attento alle cose di quaggiù, capace di guardare l’esperienza naturale delle persone. Ed è esperienza naturale di chiunque che la radice morale dell’ingiustizia, e perciò dei conflitti, non sia un problema solo dei governi. Procede per analogia, Benedetto XVI, e richiama così anche i politici e i capi di stato a una visione realista dei problemi. Riprende con sapienza le parole semplici della tradizionale visione sociale cattolica. La famiglia – quella naturale – diventa in essa il modello della “famiglia umana”, cioè dell’umanità considerata come una sola famiglia. E allora l’ambiente diventa non un totem (“rispettare l’ambiente non vuol dire considerare la natura materiale o animale più importante dell’uomo”), bensì la “casa comune” dell’umanità. Cioè un luogo che va trattato con amore, pulizia e responsabilità, dividendo equamente le spese e non “egoisticamente a completa disposizione dei propri interessi”. Così la giustizia: “Il riferimento alla famiglia naturale si rivela, anche da questo punto di vista, singolarmente suggestivo”, scrive il Papa: “Occorre promuovere corrette e sincere relazioni tra i singoli esseri umani e tra i popoli, che permettano a tuttidi collaborare su un piano di parità e di giustizia. Al tempo stesso, ci si deve adoperare per una saggia utilizzazione delle risorse e per un’equa distribuzione della ricchezza”. E così fino alla necessaria pace, che è frutto di una visione antropologicamente ben fondata: “In una sana vita familiare si fa esperienza di alcune componenti fondamentali della pace: la giustizia e l’amore tra fratelli e sorelle, la funzione dell’autorità espressa dai genitori, il servizio amorevole ai membri più deboli perché piccoli o malati o anziani, l’aiuto vicendevole nelle necessità della vita, la disponibilità ad accogliere l’altro e, se necessario, a perdonarlo”. Esiste una norma morale per la famiglia, ed “esistono norme giuridiche per i rapporti tra le Nazioni che formano la famiglia umana”. Bisogna insomma risalire alla norma morale naturale come base della norma giuridica, “altrimenti questa resta in balia di fragili e provvisori consensi”. E in questa logica stringente non può essere che duro – in quanto contrario alla pace, oltre che alla morale – il giudizio sui nemici della famiglia: “Pertanto, chi anche inconsapevolmente osteggia l’istituto familiare rende fragile la pace nell’intera comunità, nazionale e internazionale, perché indebolisce quella che, di fatto, è la principale ‘agenzia’ di pace”.

© Il Foglio, 13 dicembre 2007

[Leggi tutto...]

Identità e disgregazione

Identità e disgregazione sono caratteri dei tempi odierni. Una riflessione di Gianfranco Ravasi intorno a questi temi ci aiuta a guardare al mondo proprio mentre riscopriamo la nostra identità. E ci ricorda che nella molteplicità si può trovare l'unità perfetta, principio che non ha confini di stato, popolo o nazione.


Chi non ricorda non vive


di Gianfranco Ravasi

È un binomio che spesso ricorre nei saggi che cercano di decifrare i percorsi dell'epoca che stiamo attraversando, e questa coppia di termini viene spontaneamente intesa in senso "polare": infatti, identità, da una parte, e disgregazione, dall'altra, sono come i poli estremi e antitetici della vicenda umana e sociale che stiamo vivendo. Questo è certamente vero ed è su tale percorso che si muove la rassegna cinematografica "Tertio millennio". Tuttavia se si scava più in profondità all'interno di questi due antipodi esistenziali e storici, si può forse individuare in ciascuno di essi quasi due volti anch'essi posti in antitesi.

Partiamo, dunque, dall'identità: è indubbio che essa costituisce un valore positivo che ai nostri giorni si fa sempre più stinto fino a rivelarsi talvolta estinto. Si tratta della propria storia, della memoria, delle radici, di quel passato che spiega il nostro presente: certo, esso trascina con sé anche scorie ma rappresenta la linfa vitale dello stesso nostro essere ed esistere. L'apolide che non ha identità è solo apparentemente libero, in realtà è un disperso, senza grembo e calore. Purtroppo la cultura contemporanea è sempre più smemorata e quindi incapace di "riportare al cuore" - come dice la stessa etimologia del "ricordo" - i suoi valori, le sue ricchezze interiori e comunitarie, la sua fisionomia, dilapidando la sua eredità. Un grande filologo come Giorgio Pasquali nella sua opera Filologia e storia (1920) giustamente annotava che "chi non ricorda non vive".

Detto questo, dobbiamo riconoscere che un aggrapparsi eccessivo ed esclusivo alla propria identità può diventare patologico. Sboccia, infatti, nelle anime la grettezza, nei popoli il nazionalismo, nelle religioni il fondamentalismo, nelle culture l'integralismo. Lo scrittore francese André Gide nel suo Diario osservava che "il nazionalista (come anche il fondamentalista) ha un grande odio e un piccolo amore". Sì, perché la detestazione dell'altro è molto più forte e veemente dell'amore per la propria identità spirituale e civile. Si procede, così, seguendo questa via verso la deriva del rigetto di tutto ciò che non si identifica con se stessi, e l'aggressività con cui si reagisce verso il diverso è, in realtà, segno di paura e di debolezza proprio nei confronti della capacità di tutela dell'identità.

Passiamo all'altro vocabolo, disgregazione. È ben evidente la connotazione negativa: il termine suggerisce dispersione e dissoluzione, un po' come accade quando si staccano le tessere di un mosaico, che a terra creano solo cumuli di colori confusi. Babilonia, la città della divisione, è anche la sede dell'incomunicabilità e dell'incomprensione. Come si dice nel libro della Genesi (11, 7), "confondiamo la loro lingua e non si comprenderanno l'un l'altro".

Fiorisce, così, una sorta di anarchia che impedisce progetti comuni. Il Cacciaguida dantesco, nel canto XVI del Paradiso, ricorda che "Sempre la confusion delle persone / principio fu del mal della cittade". Su questo tema è stato ormai detto tutto il necessario e la sociologia ha condotto tutte le analisi possibili.

Ribadito questo giudizio severo sulla disgregazione dei popoli e delle culture, bisogna però ricordare che sotto questa parola così negativa può celarsi un fermento fecondo. Quella che potremmo identificare come pluralità che si oppone a ogni forma di monolitismo socio-culturale e a ogni globalizzazione imposta e forzosa. Nella disgregazione può, infatti, manifestarsi in forma esasperata un'istanza di disaggregazione che impedisce appunto l'essere gregge o branco senza una coscienza personale e un'individualità creativa. Illuminante è, al riguardo, l'immagine di san Paolo quando, forse ricorrendo a una metafora di genesi stoica, compara la Chiesa a un corpo nel quale si conservano in equilibrio armonico sia l'unità sia la molteplicità, per cui "molte sono le membra e uno solo è il corpo e non può l'occhio dire alla mano: Non ho bisogno di te, né la testa ai piedi: Non ho bisogno di voi" (Prima lettera ai Corinzi, 12, 20-21).

Antonin Artaud, grande teorico del teatro, era fermamente convinto che il cinema "giocasse innanzitutto e soprattutto con la pelle umana delle cose, col derma della realtà", incapace di scavare in profondità, nell'essenza intima delle vicende e dell'essere. Ad onor del vero, la storia del cinema - e, nel suo piccolo, questa rassegna - testimonia che anche quest'arte sa penetrare oltre la superficie degli eventi. E lo fa centrando uno snodo così strategico e drammatico com'è appunto quello che intreccia identità e disgregazione.

© L'Osservatore Romano, 10-11 dicembre 2007

[Leggi tutto...]

martedì 11 dicembre 2007

I Savoia e la Chiesa Ortodossa

Grazie alle preziose informazioni fornitemi da Massimo a proposito dei culti tollerati in Italia prima dell'unità (vedi post "Il Vuoto" su Il Consiglio dell'Abate Vella), ho scoperto che la Chiesa Ortodossa vanta (letteralmente) uno storico legame con casa Savoia. Curiosamente, indovinate un po' dove ho trovato questa informazione? Sul sito dell'Arcidiocesi di Palermo della Chiesa Ortodossa Autocefala Ucraina. Riporto fedelmente il testo in questione, senza volere scatenare necessariamente una polemica. Dico solo che trovo quanto meno singolare il fatto che gli ortodossi si vantino di questo legame con la casa regnante colonizzatrice dicendo addirittura che: "[...] i Savoia unificarono l'Italia, portando agli italiani, per la prima volta dal medioevo, un senso di libertà religiosa" (sic!). Tra le righe (e neanche troppo) si legge financo una certa nostalgia per la fine della monarchia sabauda quando si dice che: "[i] legami dei Savoia con l'Ortodossia [...] sarebbero stati meglio conosciuti in Italia se il Paese fosse rimasto una monarchia dopo il 1946"). Si accettano opinioni. Io dico subito la mia: questa, insieme a tante altre testimonianze storiche, dimostra la subalternità delle Chiese Autocefale Ortodosse al potere politico.


Rapporti tra la Chiesa Ortodossa e la Casa di Savoia

Storicamente, i protettori dell'Ortodossia sono stati i sovrani dei Paesi dove le varie giurisdizioni nazionali Ortodosse esistono ancora. A loro volta, ire governavano per mezzo della grazia di Dio, incarnatasi nella Chiesa e nei suoi vescovi; molte incoronazioni europee sono ancora ceremonie religiose Ortodosse, Romano-Cattoliche o Protestanti.

Le ultime comunità Ortodosse native in Veneto, Puglia, Calabria e Sicilia sono state gradualmente latinizzate nel XIV e nel XVII secolo persino le parrocchie fondate dagli Albanesi sfuggiti alle conquiste turchi nei Balcani, site nell'Italia meridionale, erano diventate "uniati", cioè congregazioni romano-cattoliche che celebravano col rito bizantino. Nel XX secolo, alcuni collegamenti dinastici fra le case reali Ortodosse sonostati stabiliti con la casa reale italiana, concentrandosi nelle famiglie reali Ortodosse dei Paesi balcanici.

I Savoia governarono in nord Italia (Piemonte) per secoli. A partire dall'800 la dinastia dichiarò una notevole tolleranza religiosa dei protestanti (Valdesi) ed ebrei, e ad alcuni di questi ottennero il titolo di baroni. In questo modo i Savoia, anche se romano-cattolici, si differenziavano dai reali del Sud, i Borboni di Napoli, che, al contrario, concedevano solamente chiese cattoliche in Sicilia. A partire dal 1870, i Savoia unificarono l'Italia, portando agli italiani, per la prima volta dal medioevo, un senso di libertà religiosa.

Nel 1896 il Principe Vittorio Emanuele, futuro re d'Italia (regnò per 45 anni) sposò la statuaria Elena Petrovic, figlia di Nicola I del Montenegro. Ellafu la prima regina italiana nei secoli a manifestare un particolare interesse inopere di carità nei confronti del popolo. Ortodossa devota, accettò ilcattolicesimo per ragioni dinastiche per sposare l'erede al trono italiano ma fececostruire una cappella ortodossa nel Quirinale. Nel 1930 sua figlia, Giovanna, sposò Boris III, re di Bulgaria. (Il loro figlio, re Simeon, è l'attuale Primo Ministro di Bulgaria.) Ella si convertì all'Ortodossia e morì nel 2000, dopo aver riscontrato grande popolarità tra il popolo bulgaro. Altri membri di Casa Savoia si sposarono con membri di altre dinastie ortodosse, diventando anch'essi ortodossi. Nel 1939 Aimone, Duca d'Aosta, sposò Irene, figlia del Re Costantino I di Grecia. Nel 1955 Maria Pia, figlia di Umberto II d'Italia (che regnò brevemente nel 1946) sposò il Principe Alessandro di Iugoslavia.

I legami dei Savoia con l'Ortodossia, e particolarmente con le Chiese balcaniche, sarebbero stati meglio conosciuti in Italia se il Paese fosse rimasto una monarchia dopo il 1946. I tempi cambiano ma la Chiesa Ortodossa rimane.


[Leggi tutto...]

domenica 2 dicembre 2007

Cosa significa la bellissima enciclica di Benedetto XVI sulla speranza

Un testo bellissimo da leggere e meditare…

di Antonio Socci

Una bomba. E’ la nuova enciclica di Benedetto XVI, “Spe salvi” dove non c’è neanche una citazione del Concilio (scelta di enorme significato), dove finalmente si torna a parlare dell’Inferno, del Paradiso e del Purgatorio (perfino dell’Anticristo, sia pure in una citazione di Kant), dove si chiamano gli orrori col loro nome (per esempio “comunismo”, parola che al Concilio fu proibito pronunciare e condannare), dove invece di ammiccare ai potenti di questo mondo si riporta la struggente testimonianza dei martiri cristiani, le vittime, dove si spazza via la retorica delle “religioni” affermando che uno solo è il Salvatore, dove si indica Maria come “stella di speranza” e dove si mostra che la fiducia cieca nel (solo) progresso e nella (sola) scienza porta al disastro e alla disperazione.
Benedetto XVI, del Concilio, non cita neanche la “Gaudium et spes”, che pure aveva nel titolo la parola “speranza”, ma spazza via proprio l’equivoco disastrosamente introdotto nel mondo cattolico da questa che fu la principale costituzione conciliare, “La Chiesa nel mondo contemporaneo”. Il Papa invita infatti, al n. 22, a “un’autocritica del cristianesimo moderno”. Specialmente sul concetto di “progresso”. Per dirla con Charles Péguy, “il cristianesimo non è la religione del progresso, ma della salvezza”. Non che il “progresso” sia cosa negativa, tutt’altro e moltissimo esso deve al cristianesimo come dimostrano anche libri recenti (penso a quelli di Rodney Stark, “La vittoria della Ragione” e di Thomas Woods, “Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale”). Il problema è l’ “ideologia del progresso”, la sua trasformazione in utopia.

Il guaio grave della “Gaudium et spes” e del Concilio fu quello di mutare la virtù teologale della “speranza” nella nozione mondanizzata di ”ottimismo”. Due cose radicalmente antitetiche, perché, come scriveva Ratzinger, da cardinale, nel libro “Guardare Cristo”: “lo scopo dell’ottimismo è l’utopia”, mentre la speranza è “un dono che ci è già stato dato e che attendiamo da colui che solo può davvero regalare: da quel Dio che ha già costruito la sua tenda nella storia con Gesù”.

Nella Chiesa del post-Concilio l’ “ottimismo” divenne un obbligo e un nuovo superdogma. Il peggior peccato diventò quello di “pessimismo”. A dare il là fu anche l’ “ingenuo” discorso di apertura del Concilio fatto da Giovanni XXIII, il quale, nel secolo del più grande macello di cristiani della storia, vedeva rosa e se la prendeva con i cosiddetti “profeti di sventura”: “Nelle attuali condizioni della società umana” disse “essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia… A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo”.

Roncalli fu ritenuto, dall’apologertica progressista, depositario di un vero “spirito profetico”, cosa che si negò – per esempio – alla Madonna di Fatima la quale invece, nel 1917, metteva in guardia da orribili sciagure, annunciando la gravità del momento e il pericolo mortale rappresentato dal comunismo in arrivo (dopo tre mesi) in Russia. Si verificò infatti un oceano di orrore e di sangue. Ma 40 anni dopo, nel 1962, allegramente – mentre il Vaticano assicurava Mosca che al Concilio non sarebbe stato condannato esplicitamente il comunismo e mentre si “condannavano” a mille vessazioni santi come padre Pio – Giovanni XXIII annunciò pubblicamente che la Chiesa del Concilio preferiva evitare “condanne” perché anche se “non mancano dottrine fallaci… ormai gli uomini da se stessi sembra siano propensi a condannarli”.

E infatti di lì a poco si ebbe il massimo dell’espansione comunista nel mondo, non solo con regimi che andavano da Trieste alla Cina e poi Cuba e l’Indocina, ma con l’esplosione del ’68 nei Paesi occidentali che per decenni furono devastati dalle ideologie dell’odio. Pochi anni dopo la fine del Concilio Paolo VI tirava il tragico bilancio, per la Chiesa, del ”profetico” ottimismo roncalliano e conciliare: “Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza…L’apertura al mondo è diventata una vera e propria invasione del pensiero secolare nella Chiesa. Siamo stati forse troppo deboli e imprudenti”, “la Chiesa è in un difficile periodo di autodemolizione”, “da qualche parte il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio”.

Per questa leale ammissione, lo stesso Paolo VI fu isolato come “pessimista” dall’establishment clericale per il quale la religione dell’ottimismo “faceva dimenticare ogni decadenza e ogni distruzione” (oltre a far dimenticare l’enormità dei pericoli che gravano sull’umanità e dogmi quali il peccato originale e l’esistenza di Satana e dell’inferno). Ratzinger, nel libro citato, ha parole di fuoco contro questa sostituzione della “speranza” con l’ “ottimismo”. Dice che “questo ottimismo metodico veniva prodotto da coloro che desideravano la distruzione della vecchia Chiesa, con il mantello di copertura della riforma”, “il pubblico ottimismo era una specie di tranquillante… allo scopo di creare il clima adatto a disfare possibilmente in pace la Chiesa e acquisire così dominio su di essa”.

Ratzinger faceva anche un esempio personale. Quando esplose il caso del suo libro intervista con Vittorio Messori, “Rapporto sulla fede”, dove si illustrava a chiare note la situazione della Chiesa e del mondo, fu accusato di aver fatto “un libro pessimistico. Da qualche parte” scriveva il cardinale “si tentò perfino di vietarne la vendita, perché un’eresia di quest’ordine di grandezza semplicemente non poteva essere tollerata. I detentori del potere d’opinione misero il libro all’indice. La nuova inquisizione fece sentire la sua forza. Venne dimostrato ancora una volta che non esiste peccato peggiore contro lo spirito dell’epoca che il diventare rei di una mancanza di ottimismo”.

Oggi Benedetto XVI, con questa enciclica dal pensiero potente (che valorizza per esempio i “francofortesi”), finalmente mette in soffitta il burroso “ottimismo” roncalliano e conciliare, quell’ideologismo facilone e conformista che ha fatto inginocchiare la Chiesa davanti al mondo e l’ha consegnata a una delle più tremende crisi della sua storia. Così la critica implicita non va più solo al post concilio, alle “cattive interpretazioni” del Concilio, ma anche ad alcune impostazioni del Concilio. Del resto già un teologo del Concilio come fu Henri De Lubac (peraltro citato nell’enciclica) scriveva a proposito della Gaudium et spes: “si parla ancora di ‘concezione cristiana’, ma ben poco di fede cristiana. Tutta una corrente, nel momento attuale, cerca di agganciare la Chiesa, per mezzo del Concilio, a una piccola mondanizzazione”. E persino Karl Rahner disse che lo “schema 13”, che sarebbe divenuto la Gaudium et spes, “riduceva la portata soprannaturale del cristianesimo”. Addirittura Rahner ! Ratzinger visse il Concilio: è l’autore del discorso con cui il cardinale Frings demolì il vecchio S. Uffizio che non pochi danni aveva fatto. E oggi il pontificato di Benedetto XVI si sta qualificando come la chiusura della stagione buia che, facendo tesoro delle cose buone del Concilio, ci ridona la bellezza bimillenaria della tradizione della Chiesa. Non a caso nell’enciclica non è citato il Concilio, ma ci sono S. Paolo e Gregorio Nazianzeno, S. Agostino e S. Ambrogio, S. Tommaso e S. Bernardo. Un’enciclica bella, bellissima. Anche poetica, che parla al cuore dell’uomo, alla sua solitudine e ai suoi desideri più profondi. E’ consigliabile leggerla e meditarla attentamente.

Da “Libero”, 1 dicembre 2007

[Leggi tutto...]

sabato 1 dicembre 2007

138 musulmani scrivono al Papa

Ancora una volta la Chiesa ci toglierà le castagne dal fuoco. La lezione tenuta dal Papa a Ratisbona lo scorso anno sta raccogliendo i frutti sperati, nonostante la distorsione resa dai media e le ostilità dell'intellighenzia occidentale. Già quasi all'indomani della lectio magistralis, 38 intellettuali musulmani avevano scritto a Benedetto XVI, ma ora sembra che si stia dischiudendo un dialogo durevole, su base più ampia. Analogamente allo storico riavvicinamento con gli ortodossi, dobbiamo il merito di questo nuovo dialogo, proficuo e necessario, con il mondo musulmano alla lungimiranza e alla levatura intellettuale di Joseph Ratzinger.


Un fatto inedito

Segnato da un versetto tratto dal Corano - "Venite a una parola comune tra noi e voi: che non adoriamo altri dei che Dio, e non associamo a lui cosa alcuna, e che nessuno di noi scelga altri signori accanto a Dio" - il 13 ottobre scorso si è verificato un fatto certamente storico nell'ultramillenario cammino delle relazioni tra cristiani e musulmani.

Centotrentotto personalità musulmane - tra loro intellettuali e guide religiose - alla fine del Ramadan, firmarono e resero pubblica una "lettera aperta e appello", rivolta al Papa, ma anche al Patriarca ecumenico, ai capi delle Chiese ortodosse, all'arcivescovo di Canterbury, ai più alti responsabili luterani, metodisti, battisti e riformati, al segretariato del Consiglio Ecumenico delle Chiese e alle guide delle Chiese cristiane. Insomma è stata indirizzata a tutti quelli che non adorano "altri dei che Dio" per sottolineare come da un confronto costruttivo tra i passi scelti del Corano e della Bibbia scaturisca la comune convinzione "del primato dell'amore e della devozione a Dio" e la valorizzazione dell'amore fraterno.

"Come musulmani - si legge nella lettera - noi diciamo ai cristiani che non siamo contro di loro e che l'islam non è contro di loro, a meno che loro non intraprendano la guerra contro i musulmani a causa della loro religione, li opprimano e li privino delle loro case". E ancora: "E a quelli che ciononostante provano piacere nel conflitto e nella distruzione, o stimano che alla fine riusciranno a vincere, noi diciamo che le nostre anime eterne sono in pericolo se non riusciremo a fare sinceramente ogni sforzo per la pace e a giungere ad un'armonia condivisa".

"Con questa iniziativa - si legge in un articolo del gesuita Christian W. Troll, che sarà pubblicato nel numero de "La Civiltà Cattolica" di sabato prossimo, 1° dicembre, a commento della Lettera - si va delineando una sorta di ecumenismo islamico".

Sta di fatto che tra i centotrentotto firmatari figurano eminenti personalità in rappresentanza degli ambienti islamici più diversi e compositi a significare l'oggettivo valore dell'iniziativa. "Senza dubbio - scrive ancora padre Troll - la lettera dei capi e degli intellettuali religiosi musulmani merita di essere presa in attenta considerazione, e in particolare dal mondo cristiano. Per coloro che, come chi scrive, si trovano impegnati da decenni nel dialogo religioso tra cristiani e musulmani, è già interessante il solo fatto di voler raggiungere un ampio consenso tra le personalità che hanno compiti di guida nel mondo musulmano".

Si tratta di uno sforzo, scrive ancora padre Troll, "che la Chiesa può soltanto accogliere di buon occhio, poiché ha bisogno di un dialogo qualificato con il mondo non cristiano".
La risposta del Papa apre orizzonti concreti a questa speranza. (m.p.)

(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 2007)

[Leggi tutto...]

Gli ortodossi riconoscono il primato di Roma

Agli ideologi della Chiesa Siciliana Autocefala forse non farà piacere sapere che la fine dello scisma delle chiese orientali è sempre più vicina. Grazie al cammino comune intrapreso da cattolici e ortodossi, sotto la spinta provvidenziale di Benedetto XVI, le chiese soggette a Cesare diverranno sempre più anacronistiche. L'universalità è infatti il verbo di domani: una Chiesa universale unita e, soprattutto, svincolata dal potere politico. Non è infatti un caso che i maggiori ostacoli a questo cammino di riunificazione vengano proprio dalla Chiesa russa, quella più assoggettata al potere politico e che non perdona al Vaticano l'attività anti-comunista delle diocesi cattoliche nell'ex Urss.


La storica affermazione in un documento di 46 paragrafi una vera road map. Ancora da studiare il ruolo dei vescovi

Gli ortodossi: "Il Papa è il primo patriarca"
Si apre la strada per la riunificazione

di MARCO POLITI

CITTA' DEL VATICANO

Il Papa è il "primo dei patriarchi", Roma è la "prima sede", la Chiesa di Roma "presiede nell'amore". Nero su bianco un documento congiunto della Chiesa cattolica e delle Chiese ortodosse fissa definitivamente e in maniera inequivocabile il primato del romano pontefice, spianando la strada alla riunificazione di cattolici e ortodossi divisi dallo scisma del 1054.

Il documento riservato è il frutto del vertice di ottobre a Ravenna, dove una delegazione cattolica guidata dal cardinale Kasper e una delegazione panortodossa guidata dal metropolita Zizioulas del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli hanno gettato le basi per un approfondimento delle questioni da risolvere per ristabilire l'unità.
Sono 46 paragrafi, una vera e propria road map, che indica il percorso dei temi da sviscerare per potere dichiarare superate le divisioni del passato. Dunque, il riconoscimento del primato romano c'è, ma subito viene chiarito che dovrà essere studiato "il ruolo del vescovo della prima sede" nell'ambito della comunità ecclesiale. In altre parole bisognerà definire quali sono le "prerogative" del vescovo di Roma, tenuto conto che sull'argomento ci sono opinioni molto differenti.
Il documento delinea tre concetti fondamentali: comunione ecclesiale, conciliarità, autorità. Entrambe le parti concordano che il vescovo è il capo della Chiesa locale e che nessuno può sostituirsi a lui. Entrambe concordano nel riconoscere che "l'unica e santa Chiesa" si realizza contemporaneamente in ogni Chiesa locale, che celebra l'eucaristia, e nella comunione di tutte le Chiese.

C'è accordo anche sulle strutture della Chiesa universale. A livello locale l'autorità è il vescovo. A livello regionale un gruppo di Chiese riconosce al proprio interno un "primo" (protos, in greco). Più articolata la questione del livello globale: qui gli esperti avranno molto da lavorare. Perché il documento afferma che sul piano universale "coloro che sono i primi nelle differenti regioni, insieme a tutti i vescovi, cooperano in ciò che riguarda la totalità della Chiesa". E in questo contesto si sottolinea che "i primi devono riconoscere chi è il primo tra di loro".

Ma per assicurare la concordia - scandisce la road map ecumenica - serve la conciliarità: cioè la cooperazione comune tra tutti. Tutti i vescovi dell'orbe cristiano, è detto, non devono essere solamente uniti tra di loro nella fede, ma "hanno anche in comune la stessa responsabilità e lo stesso servizio nei confronti della Chiesa". I concili sono lo "strumento principale" attraverso cui si esprime la comunione della Chiesa.
Insomma, il mondo ortodosso mette in chiaro che il vescovo di Roma non può immaginarsi di essere un sovrano totalitario, che decide da solo o si sostituisce ai livelli locali.

D'altronde lo stesso Ratzinger affermò in passato varie volte che il romano pontefice non può comportarsi da "monarca assoluto". Un brano del testo (riferito allle autorità regionali) ha il suono di un monito preciso: "Il primo non può fare niente senza il consenso di tutti".

Il pontefice, peraltro, è sempre nominato nel testo come vescovo di Roma o come uno dei cinque patriarchi storici.
Ora tocca a papa Ratzinger. Solo lui può dare l'impulso a procedere. Per il 23 novembre il pontefice ha convocato tutti i cardinali del mondo per una riunione, che all'ordine del giorno ha proprio l'ecumenismo. Il documento cattolico-ortodosso costituirà la base del dibattito.

Nel frattempo Benedetto XVI sta riformano il Sinodo dei vescovi, il parlamento consultivo dell'episcopato mondiale che si tiene ogni tre anni: verranno dati più delegati alle Chiese orientali cattoliche - ponte verso l'Ortodossia - che hanno oltre venticinque vescovi, ci sarà più spazio per la discussione e saranno riformati i gruppi di lavoro.

Benedetto XVI ha manifestato fin dalla sua elezione la volontà di fare "passi concreti" in direzione dell'avvicinamento fra le Chiese cristiane. Ma ci sono anche difficoltà in campo ortodosso.
Il patriarca Alessio di Mosca è recalcitrante nel riconoscere il primato del patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I e al tempo stesso non perdona al Vaticano l'attività delle diocesi cattoliche nell'ex Urss. A Ravenna i suoi rappresentanti hanno abbandonato la riunione perché la Chiesa ortodossa di Estonia si era aggregata al patriarcato ecumenico di Costantinopoli.


[Leggi tutto...]

giovedì 29 novembre 2007

Come i Siciliani finanziano comunisti e musulmani

Lo sapevate che il sudore della vostra fronte serve in parte a finanziare comunisti e musulmani? No? Andiamo per ordine e ve ne renderete conto.

Chi riscuote i tributi in Sicilia? A rigor di logica dovrebbe farlo la Regione Siciliana. Ma ciò avviene solo in parte, e solo di recente. In realtà dal 1991 l'esazione delle tasse in terra di Trinakria è in mano alla Montepaschi Siena, attraverso la controllata Montepaschi SERIT S.p.A., fino al 2006, e la partecipata SERIT SICILIA S.p.A., dall'anno scorso. In cambio di questo "servizio" i padroni della banca senese ricevono un compenso equivalente a circa il 10% dell'intero gettito fiscale dell'Isola: una ingente ricchezza che potrebbe tranquillamente rimanere in Sicilia se l'esazione venisse espletata direttamente dalla Regione. Ammontano a ben 509 miliardi di lire i compensi intascati dalla Montepaschi per il periodo 1997-2001*.

Dove finiscono questi soldi? La risposta è semplice: la maggioranza azionaria dell'istituto di Siena appartiene a una Fondazione controllata da enti pubblici (Comune e Provincia su tutti). Enti governati dal dopoguerra a oggi da solide coalizioni "laiche" a maggioranza comunista: PCI, poi PDS, poi DS e (presto) PD.

Sicché i soldi rapinati ai Siciliani, col benestare degli ascari nostrani, servono a finanziare le amministrazioni comuniste toscane. La prossima volta che vi trovate ad ammirare qualche città d'arte della "mitica" Etruria ricordate che la pulizia e l'arredo urbano vengono in buona parte finanziati dalle vostre tasche: una delle maggiori entrate della cosiddetta "cassaforte laica" senese proviene proprio dal sudore della fronte dei Siciliani.

Amministrazione locale a parte, è chiaro che questi soldi rappresentano - insieme a quelli raccimolati da UNIPOL in Sicilia e nel Meridione - un finanziamento neanche troppo occulto agli apparati di potere comunisti-democratici della Toscana, e quindi dell'Italia.

Ma non è finita qui, oltre a finanziare i comunisti, gli sprovveduti Siciliani non sanno che indirettamente finanziano l'avanzata dell'Eurabia. Da qualche tempo, infatti, il Montepaschi e la Provincia di Siena hanno deciso di finanziare a scatola chiusa il centro islamico cui fanno capo le moschee degli integralisti islamici di Colle Val d’Elsa e di Poggibonsi. Mentre l'amministrazione comunale di Siena impiega spesso i soldi degli ignari Siciliani in "appuntamenti d'autore"** pro-islam in cui intellettuali della caratura di Tariq Ramadan (ma cu u canusci?) vengono a spiegarci cos'è l'islam autentico. Cioè, secondo la loro vulgata, quello dei fratelli musulmani.

Quindi, quando qualche toscanaccio vi dirà che noi Siciliani siamo un popolo di arretrati e ignoranti, vittime della superstizione e dell'oscurantismo cattolico, avete tutto il diritto di rispondere che noi invece apparteniamo a uno dei popoli più sensibili alle tematiche laiche del mondo moderno e all'apertura verso la superiore cultura musulmana. Noi infatti - conti alla mano - devolviamo gratuitamente una quota della nostra ricchezza alla parte migliore del paese, quella comunista, e diamo ai nostri fratelli musulmani luoghi di incontro in cui possono preparare la guerra santa... solo che nessuno ce lo aveva detto prima!

__

* Dati pubblicati da Centonove
** Evento finanziato dal Comune di Siena

[Leggi tutto...]

lunedì 26 novembre 2007

L'Altra Sicilia a una svolta indipendentista?

Il 24 novembre 2007 il sito de L'Altra Sicilia ha pubblicato un articolo a firma di Eugenio Preta che lascia prefigurare, se non una svolta, quanto meno l'apertura all'indipendentismo del movimento in questione. E' proprio così? E se sì, cosa sta spingendo L'Altra Sicilia a questa svolta? Seguiremo gli sviluppi molto da vicino. Per il momento ci limitiamo a riportare in quanto segue l'articolo in questione.



Il coraggio dell'indipendenza

Regno Unito: un’Unione che si tiene con forza e a stento, se è vero, com'è vero, che lo scorso 16 gennaio, la festa dell'Unione è passata sotto silenzio, né fuochi d'artificio né bevute collettive nei pub, soprattutto in quelli di Edimburgo dove sventola quella bandiera dell'indipendenza che la vittoria di un partito nazionalista ha fatto venir fuori dalle viscere e dal cuore di tutti gli scozzesi.

Primo fra tutti Sean Connery, ex 007 che dalla Regina ha preteso onori e ottenuto onorificienze che poi ha regolarmente devoluto alla causa in cui crede : l'indipendenza del suo Paese.

Come William Wallace, l'eroe dell'indipendenza delle Higlanders, più conosciuto come Braveheart di hollywoodiana memoria, Sean Connery porta una scritta tatuata sulla spalla "Scottland forever", e ai suoi detrattori che gli rimproverano di vivere alle Bahamas risponde (e intanto prosegue la sua crociata per l'indipendenza del suo paese) che appena vedrà una Scozia libera ritornerà senz'altro ad Edimburgo.

Il ritorno, il mito di "nuàtri", condizionato da una clausola: il coraggio dell'indipendenza.
  • Quanti dei siciliani della diaspora, partiti per fare grande l'Isola, accetterebbero di declinare onori e onorificienze in nome dell'indipendenza della loro terra?
  • Quanti politici siciliani che hanno fatto fortuna nel Nord (Roma) sarebbero disposti a mettere tutto in discussione per una causa nobile di appartenenza?
  • Quanti di loro avrebbero il coraggio dell'indipendenza?
  • E quanti di noi?
In un mondo dove tutto ormai si lega, economia, politica, mercati e borse, il coraggio dell'indipendenza è prerogativa di pochi, patrimonio dei pochissimi.

Cosi la terra impareggiabile, 13.9000 chilometri di costa, argilla, lava, tufo, roccia, montagna, vulcano, cava, miniera, pianura e depressione rimane attaccata al continente perchè più legame di ponte e traghetti restano malaffare, soldi, politica e paura di se stessi.
La terra impareggiabile, oltre 6milioni di Siciliani “di qua dal faro”, ed altrettanti in giro per la Diaspora, cultura, monumenti, vestigia di un ricco passato, lingua e tradizioni, sviliti dall'essere italica colonia piuttosto che, come Malta - 300 chilometri quadrati di roccia - Stato-Nazione.

Ma per esssere Stato-Nazione non occorrono soltanto territorio, lingua e cultura, occorre un popolo che sia fiero delle sue origini, che non abbia nessuna vergogna a manifestare il suo essere siciliano, un popolo che non sia stato costretto prono dalla mala politica che altri hanno imposto, fiero e non costretto all'antimafia, un popolo capace di gestire il suo presente e prendersi cura del proprio futuro.
Popolo che riuscisse a trepidare davanti allo stretto indispensabile, alle magie del cuore, ai viaggi della vita, ai ritorni della memoria; popolo che esultasse per la Pietra del Destino, come gli scozzesi felici che nel 1996 riuscivano ad avere restituito un macigno, senza alcun valore pecuniario, ma simbolo di storia e di tradizione, simbolo di un popolo, la pietra del destino che, trafugata con l'inganno nel 1296 da Edoardo I d'Inghilterrra, veniva restituita dall'attuale regina, forse per sedare quelle spinte autonomistiche che il popolo delle Higlanders, sempre più insistentemente manifestava da tempo.

Ma un popolo fiero trepida ed esulta nella lotta per l'indipendenza, ma continua la sua lotta perchè la libertà è un coraggio che si conquista lentamente, con lotta e sacrifici e con quella fede necessaria all'orgoglio dell'appartenenza, all'orgoglio delle proprie radici.
Cosi' continuano quei popoli fieri a marciare verso quell'indipendenza dalla matrigna Bretagna divenuta realtà necessaria e possibile, da antica chimera.

Soltanto l'anno scorso l'assemblea di Edimburgo ha visto la vittoria degli independentisti che hanno proclamato per il 2010 il referendum per la separazione. E tra l'autonomismo e l'indipendenza, questo è certo, quel popolo fiero sceglierà la propria sovranità, dichiaradosi scozzesi piuttosto che britannici.

E che dire della loro autonomia che già comprende diversi settori importanti per un popolo e una terra, settori vitali come l'educazione, la salute, la giustizia, la cultura i trasporti, l'agricoltura, l'urbanismo e che certamente rimetteranno in gioco non soltanto per ottenere in più fiscalità e relazioni esterne, ma per riappropriarsi della storia, della propria libertà e della propria autodeterminazione. Soltanto quest'anno il gaelico è diventato lingua ufficiale, grazie alla continua battaglia del popolo irlandese. Domani lo sarà lo scozzese. E intanto suona la cornamusa ed impone il rispetto quella cultura.
  • Quando leverà la testa la nostra Isola?
  • Quanti vulcani dovremo scavalcare prima che la lingua siciliana possa essere considerata lingua a tutti gli effetti e non dialetto?
  • Quando quel nostro statuto di Autonomia diventerà effettivo e applicato?
  • Quando baratteremo la nostra autonomia con una vera indipendenza?
  • Perchè lasciare ancora partire i nostri giovani e, ancora non consentire ai nostri vecchi di tornare?
  • Quando anche noi avremo il coraggio dell'indipendenza, anche noi, come quei popoli fieri?

Per la Sicilia, solo per amore della Sicilia.

Eugenio Preta
Presidente della "CONFEDERAZIONE DEI GIORNALISTI E DEI MEDIA SICILIANI NEL MONDO"



[Leggi tutto...]

Europarlamento: approvata risoluzione contro persecuzione cristiani nel mondo

Il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che condanna tutti gli atti di violenza contro le comunità cristiane nel mondo e chiede ai governi dei paesi interessati di prevedere garanzie adeguate e effettive nel campo della libertà di religione e di migliorare la sicurezza delle comunità cristiane.

Appoggiando il dialogo interreligioso, la risoluzione invita le autorità religiose a promuovere la tolleranza e a agire contro l'estremismo. L'Ue deve trattare tale questione nelle relazioni con i paesi terzi.

Il testo è stato appoggiato, oltre che dal Ppe a cui appartiene il promotore Mario Mauro, anche dai gruppi Pse, Alleanza liberaldemocratica, Unione europa delle Nazioni (di cui fanno parte An e la Lega), Indipendenza/democrazia (la formazione euroscettica), e dal Gue (sinistra unitaria europea), con il sostegno personale di Vittorio Agnoletto e Giusto Catania del Prc. L'unico gruppo che si è dichiarato contrario, per ragioni di "inopportunità politica" è quello dei Verdi.

Nonostante i pochi presenti, come sempre il giovedì pomeriggio, alla fine delle sessioni plenarie del Parlamento europeo, è significativa la maggioranza schacciante (57 voti a favore contro 2 e un astenuto) con cui è stata approvata la risoluzione.
Nel testo, il parlamento 'condanna risolutamente tutti gli atti di violenza contro comunità cristiane, ovunque essi si verifichino, ed esorta i governi interessati a tradurre in giudizio gli autori di tali reati'.

Un punto con risvolti concreti della risoluzione è quello in cui si sollecita la Commissione europea a condizionare l'elaborazione e attuazione dei programmi di cooperazione e aiuto allo sviluppo al rispetto del principio della libertà religiosa nei paesi interessati.
A tale proposito vengono elencati tutti i recenti casi di persecuzione e violenza subiti dai cristiani in Pakistan, a Gaza, in Turchia, in Cina, in Vietnam, in Sudan, in Iraq (espressa anche preoccupazione per l'esodo di cristiani) e in Siria (dove oltre due milioni di sfollati appartengono a minoranze cristiane).

L'elenco però comincia con un nome, quello del giornalista e scrittore turco di origine armena Hrant Dink, direttore del giornale bilingue Agos, che difendeva i diritti umani e si era speso molto per la tutela delle comunità cristiane nel suo paese, ucciso nel gennaio scorso, dopo aver qualificato come 'genocidio' il massacro degli armeni compiuto dall'esercito turco a ridosso della prima guerra mondiale.

A lui, di cui era diventato amico, Mauro ha voluto 'dedicare' la risoluzione approvata da Strasburgo. È stato deplorato inoltre il rapimento nelle Filippine del sacerdote cattolico Giancarlo Bossi.
Ma nella lista vengono citati anche episodi piú recenti, avvenuti in Eritrea, Corea del Nord, Bielorussia. Le persecuzioni denunciate vanno da rapimenti e omicidi (come nel caso dei quattro turchi della casa editrice Zirve che avevano stampato un Vangelo nella loro lingua), alla negazione di certi diritti civili per chi cambia religione convertendosi al cristianesimo. Mauro ha definito la libertà religiosa come una "cartina di tornasole" del rispetto degli altri diritti fondamentali.

Tratto da NoiPress.it, 15 novembre 2007

[Leggi tutto...]

domenica 28 ottobre 2007

Cosa aspettiamo ad unirci?

La Sicilia è sotto attacco mass-mediatico. Sembra che i nemici del popolo siciliano si siano organizzati in modo tale che non passi giorno che non ci sia un attacco alla natura stessa dei siciliani: si tratti di tivù, carta stampata, o blog poco importa. Ultimo in ordine temporale è forse un post pubblicato su Rosalio.it (presumibilmente il più importante blog di Palermo) dal titolo: "Sicilia: istruzioni per chi proprio non la capisce". Un post nel quale l'autore sostiene che i peggiori nemici della Sicilia siano proprio i Siciliani. Potete immaginare il tenore dei commenti, in quello che sembra profilarsi sempre più come il blog dell'antisicilianismo palermitano: attacchi all'autonomia; attacchi allo statuto "speciale" della regione; le solite citazioni di Tomasi di Lampedusa; le solite allusioni all'irredimibile tendenza alla corruzione, all'apatia, all'immobilismo del popolo siciliano.


Nei giorni scorsi si è acceso un piccolo dibattito su questo blog a proposito di divisione del mondo sicilianista per questioni di principio che si stenta francamente a comprendere. In quella occasione ho lanciato alcuni quesiti, fin'ora disattesi. Prendo spunto pertanto per rilanciarli e magari ampliarli in questo nuovo post. Rivolgo a tutti noi, blogger e non, queste semplicissime domande:

- Cosa aspettano le attuali forze sicilianiste ad unirsi e a far sentire all'unisono la voce del popolo siciliano? Cosa impedisce loro, oggi, di mettersi a capo di un movimento di liberazione della Sicilia; che la difenda a tutti i livelli e ne rivendichi le ragioni?

- Sono solo ragioni ideologiche a divedere il fronte sicilianista? (Se è così, francamente, i politici sicilianisti si trovano distanti anni luce dal sentire comune di quelli che vogliono vedere la Sicilia finalmente liberata e se ne fregano di sigle e partiti.)

- Se i motivi che dividono i sicilianisti non sono di natura ideologica, sono forse da attribuire a invidie e gelosie? (In tal caso hanno ragione quelli che credono che non siamo un popolo ma vogliamo sempre prevalere gli uni sugli altri. E allora siamo irredimibili e ci meritiano le catene.)

Voi cosa ne pensate?

[Leggi tutto...]

Le ideologie e il Male

Le ideologie moderne sono veramente il frutto della Ragione - scritta con la 'R' maiuscola - in contrapposizione alla Rivelazione del vangelo? La storia ci insegna l'opposto contrario.

Se è vero infatti che la Rivoluzione (un'altra 'R' maiuscola) propugna in teoria i valori di libertà, uguaglianza e fraternità, i fatti tradiscono i veri propositi dei rivoluzionari: gli ultimi due secoli di storia ci danno testimonianza delle violenze più inaudite perpetrate dall'uomo sull'uomo. La Rivoluzione francese ne fu anticipatrice, prima in seno alla nazione, col periodo del Terrore, e poi sul fronte internazionale, attraverso le campagne napoleoniche: mai prima di allora gli Stati si erano fatti guerra per fini ideologici.

Obiettivo mai nascosto delle rivoluzioni è cancellare l'ordine naturale iscritto nelle cose e nell'uomo, per costruire "un mondo e un uomo nuovi" forgiati sul modello dell'utopia ideologica, costi quel che costi, vite umane comprese. In nome della Ragione e dell'utopia, contrapposti alla Rivelazione e al realismo dell'Europa cattolica pre-rivoluzionaria, i seguaci delle ideologie moderne hanno dato sfogo alle pieghe più malefiche della natura umana, legittimando l'uso della violenza come passaggio ineluttabile verso la costruzione del nuovo ordine mondiale (leggasi a proposito il post: "Mussolini, Gramsci, l'Italia e il mito della violenza salvifica").

Dal liberalismo, al nazionalismo, dal socialismo massimalista al fascismo, dal comunismo al nazional-socialismo: un susseguirsi di dottrine politiche tutte riconducibili alla Ragione e che, nel nome della Ragione, hanno determinato i più grandi bagni di sangue che la storia mondiale abbia mai conosciuto.

Le cronache politiche dei nostri giorni, sia a livello nazionale che regionale (vedi post: "FNS: come le ideologie fotteranno il sicilianismo"), ci dimostrano che ideologie e utopie fanno - ahinoi - ancora presa su gran parte del popolo. Sembra allora quasi una coincidenza fortunata che proprio oggi, 28 ottobre 2007, il Papa Benedetto XVI ci riporti all'attenzione le terribili persecuzioni religiose avvenute in Spagna durante la guerra civile. Persecuzioni che, ancora una volta, testimoniano del Male - quello assoluto - che si nasconde dietro una visione utopico-materialistica del mondo e della vita.

Il pezzo che riproponiamo è apparso su Libero il 21 ottobre scorso ed è a firma di Antonio Socci. Buona lettura!


LA LEZIONE DEL 28 OTTOBRE...

…Ma potete star certi che in occasione della beatificazione di domenica prossima la Chiesa finirà di nuovo sul banco degli accusati…

di Antonio Socci


Il 28 ottobre prossimo in Vaticano saranno beatificati 498 martiri della feroce persecuzione religiosa esplosa in Spagna dopo il 1931 e specialmente fra il 1934 e il 1936. Una cerimonia di massa di tali proporzioni non ha precedenti. Aveva cominciato Giovanni Paolo II beatificando nel 1987 tre suore carmelitane che erano state crudelmente massacrate per le strade di Madrid. Poi papa Wojtyla celebrò altre undici cerimonie di beatificazione per un totale di 465 martiri spagnoli. Domenica prossima saranno dichiarati beati 2 vescovi, 24 preti, 462 religiosi e religiose, 2 diaconi, 1 seminarista e 7 laici, tutti vittime di quella persecuzione. Sarà l’occasione per conoscere una delle più sanguinarie tempeste anticristiane scatenate nell’Europa del nostro tempo ad opera dei rivoluzionari repubblicani (una miscela di comunismo, socialismo, anarchia e laicismo). “Mai nella storia d’Europa e forse in quella del mondo” ha scritto Hugh Thomas “si era visto un odio così accanito per la religione e per i suoi uomini”. Chiese e conventi (con una quantità di opere d’arte) furono incendiati e distrutti. In pochi mesi furono ammazzati 13 vescovi, 4.184 sacerdoti e seminaristi, 2.365 religiosi, 283 suore e un numero incalcolabile di semplici cristiani la cui unica colpa era portare un crocifisso al collo o avere un rosario in tasca o essersi recati alla messa o aver nascosto un prete o essere madre di un sacerdote come capitò a una donna che per questo fu soffocata con un crocifisso ficcato nella gola.

Molti vescovi o sacerdoti sarebbero potuti fuggire, ma restarono al loro posto, pur sapendo cosa li aspettava, per non abbandonare la loro gente. Non colpisce solo l’accanimento con cui si infierì sulle vittime, inermi e inoffensive (per esempio c’è chi fu legato a un cadavere e lasciato così al sole fino alla sua decomposizione, da vivo, con il morto).

Ma colpisce ancora di più la volontà di ottenere dalle vittime il rinnegamento della fede o la profanazione di sacramenti o orribili sacrilegi. Qua c’è qualcosa su cui non si è riflettuto abbastanza. Faccio qualche esempio. I rivoluzionari decisero che il parroco di Torrijos, che si chiamava Liberio Gonzales Nonvela, data la sua ardente fede, dovesse morire come Gesù. Così fu denudato e frustato in modo bestiale. Poi si cominciò la crocifissione, la coronazione di spine, gli fu dato da bere aceto, alla fine lo finirono sparandogli mentre lui benediva i suoi aguzzini. Ma è significativo che costoro, in precedenza, gli dicessero: “bestemmia e ti perdoneremo”. Il sacerdote, sfinito dalle sevizie, rispose che era lui a perdonare loro e li benedisse. Ma va sottolineata quella volontà di ottenere da lui un tradimento della fede. Anche dagli altri sacerdoti pretendevano la profanazione di sacramenti. O da suore che violentarono. Quale senso poteva avere, dal punto di vista politico, per esempio, la riesumazione dei corpi di suore in decomposizione esposte in piazza per irriderle? Non c’è qualcosa di semplicemente satanico?

E il giovane Juan Duarte Martin, diacono ventiquattrenne, torturato con aghi su tutto il corpo e, attraverso di essi, con terribili scariche elettriche? Pretendevano di farlo bestemmiare e di fargli gridare “viva il comunismo!”, mentre lui gridò fino all’ultimo “viva Cristo Re!”. Lo cosparsero di benzina e gli dettero fuoco. Qua non siamo solo in presenza di un folle disegno politico di cancellazione della Chiesa. C’è qualcosa di più. A definire la natura e la vera identità di questo orrore ha provato Richard Wurmbrand, un rumeno di origine ebraica che in gioventù militò fra i comunisti, nel 1935 divenne cristiano e pastore evangelico, quindi subì 14 anni di persecuzione, molti dei quali nel Gulag del regime comunista di Ceausescu.

Anch’egli aveva notato – nei lager dell’Est – questo oscuro disegno nella persecuzione religiosa. In un suo libro scrive: “Si può capire che i comunisti arrestassero preti e pastori perché li consideravano contro rivoluzionari. Ma perché i preti venivano costretti dai marxisti nella prigione romena di Piteshti a dir messa sullo sterco e l’urina? Perché i cristiani venivano torturati col far prendere loro la Comunione usando queste materie come elementi?”. Non era solo “scherno osceno”. Al sacerdote Roman Braga “gli vennero schiantati i denti uno ad uno con una verga di ferro” per farlo bestemmiare. I suoi aguzzini gli dicevano: “se vi uccidiamo, voi cristiani andate in Paradiso. Ma noi non vogliamo farvi dare la corona del martirio. Dovete prima bestemmiare Iddio e poi andare all’inferno”. A un prigioniero cristiano del carcere di Piteshti, riferisce Wurmbrand, i comunisti ogni giorno ripetevano in modo blasfemo il rito del battesimo immergendogli la testa nel “bugliolo” dove tutti lasciavno gli escrementi e costringevano in quei minuti gli altri prigionieri a cantare il rito battesimale. Altri cristiani “venivano picchiati fino a farli impazzire per obbligarli a inginocchiarsi davanti a un’immagine blasfema di Cristo”.

Si chiede Wurmbrand, “cos’ha a che fare tuttociò con il socialismo e col benessere del proletariato? Non sono queste cose semplici pretesti per organizzare orge e blasfemie sataniche? Si suppone che i marxisti siano atei che non credono nel Paradiso e nell’Inferno. In queste estreme circostanze il marxismo si è tolto la maschera ateista rivelando il proprio vero volto, che è il satanismo”.

In effetti il libro di Wurmbrand s’intitola “Was Karl Marx a satanist?” ed è stato tradotto in italiano dall’ “editrice uomini nuovi” col titolo “L’altra faccia di Carlo Marx”. L’autore si spinge, indagando negli scritti giovanili di Marx e nelle sue vicende biografiche, fino a ritenere che trafficasse con sette sataniste. Peraltro nel brulicare di sette e società esoteriche di metà Ottocento sono tante le personalità che hanno avuto strane frequentazioni. E su Marx anche altri autori hanno fatto ipotesi del genere. Wurmbrand sostiene soprattutto che la filantropia socialista non era l’ispirazione vera di Marx, ma solo lo schermo, il pretesto per la sua vera motivazione che era la guerra contro Dio. Realizzata poi su larga scala con la Rivoluzione d’ottobre e quel che è seguito (nei regimi comunisti fatti, correnti, episodi e personaggi che portano in quella direzione sono chiari).

Sul satanismo non so pronunciarmi, ma gli effetti satanici dell’esperimento marxista (planetario) sono sotto gli occhi di tutti anche se rimossi clamorosamente dalla riflessione pubblica: la più colossale e feroce strage di esseri umani che la storia ricordi e la più vasta guerra al cristianesimo di questi duemila anni. Siccome capita di sentir formulare, in ambienti cattolici, giudizi indulgenti sugli “ideali dei comunisti”, che sarebbero poi stati traditi nella pratica o mal tradotti, è venuto il momento di definire una buona volta la natura satanica dell’ideologia in sé e di tutto quel che è accaduto. Visto che un grande filosofo come Augusto Del Noce da anni ha dimostrato quanto l’ateismo sia fondamentale nel marxismo e niente affatto marginale o facoltativo. La tragedia spagnola, su cui il popolo cristiano non sa quasi niente (e che fu perpetrata anche da altre forze rivoluzionarie e laiciste) dovrebbe far riflettere, se non altro per le proporzioni di quel martirio.

Da “Libero”, 21 ottobre 2007

[Leggi tutto...]

domenica 21 ottobre 2007

FNS: come le idologie fotteranno il sicilianismo

Il mondo politico sicilianista è davvero deprimente. Un universo variegato ma contraddistinto da un innegabile fattore comune: il non contare niente o quasi nello scenario politico. Non bastasse ciò, è davvero demotivante constatare come questi quattro gatti si scannino per una lisca di pesce, forse per gelosia, o forse, più presumibilmente, per miseria intellettuale.

Chi scrive è mosso da profonda delusione nel constatare che le cose da noi non cambiano davvero mai, malgrado il momento di svolta storica in cui ci ritroviamo e malgrado le pressanti spinte esterne al cambiamento. Ci chiediamo veramente e sinceramente - con la delusione di chi ha creduto per un attimo nell'unità dell'universo sicilianista - a cosa servano questi indipendentisti "ottocenteschi" che si ostinano ad andare divisi e in ordine sparso verso l'appuntamento con la storia.

In un "Appello ai Siciliani di Spirito e Cuore innamorati della loro Terra", Focus Trinakria, sedicente "think tank dell'indipendentismo siciliano progressista, pacifista e democratico", in vista delle prossime elezioni provinciali, lancia accuse generiche contro i "para" sicilianisti, rei di aver proposto l'abolizione delle province - in conformità allo Statuto di Autonomia - senza avere avanzato, però, alcuna proposta "seria" in merito alla loro sostituzione.

Non sappiamo con chi ce l'abbiano esattamente, né sapevamo che esistesse già un dibattito aperto nel mondo sicilianista circa la soppressione delle province. Evidentemente i sicilianisti si credono il centro del mondo.

Oltre ai distinguo "ideologici", che hanno più il sapore di slogan di piazza da XX secolo che di questioni di principio, i nostri thinker si lasciano addirittura andare in deliri di presunta purezza indipendentistica, per concludere infine che comunque l'abolizione delle province è necessaria, in quanto prevista dallo Statuto, ma che ESSI sanno cosa proporre in loro sostituzione, e cioè i "liberi consorzi di comuni". Come se questo non fosse già scritto nello Statuto stesso. Cosa ci propongono quindi di nuovo, o di diverso, i nostri amici travagghisti?

Erano davvero necessari questi distinguo? Era necessaria questa fuga in avanti del Fronte Nazionale Siciliano? Erano necessarie queste accuse generiche che gettano zizzanie nella già insignificante galassia sicilianista?

Marx scrisse: le religioni sono l'oppio dei popoli. Oggi possiamo tranquillamente asserire che l'oppio dei popoli sono le ideologie, un male che abbiamo importato dalla tediata Italia. E ci sembra che al think tank degli indipendentisti si siano sparati proprio una bella dose di oppio contemporaneo.

[Leggi tutto...]

domenica 7 ottobre 2007

La moneta di Auriti e lo sviluppo del Sud

di Meridio Siculo

Non finiremo mai di ringraziare il Prof. Giacinto Auriti per la sua scoperta del “valore indotto” della moneta. Penetrando, poco per volta, il suo pensiero si sperimenta il dileguarsi dell’oscurità che ha circondato quasi sempre la genesi dei problemi economici che affliggono l’umanità, e si gode, al contempo, una luce che rischiara la mente sugli innumerevoli misteri della nostra storia.


“Chi crea il valore della moneta — dice Giacinto Auriti — non è chi la stampa ma il popolo che l’accetta come mezzo di pagamento”, sono però i banchieri, i grandi usurai, che si appropriano del valore monetario, usandolo come strumento di dominazione ed imponendo all’umanità il signoraggio del debito.”

E in Italia le nefaste conseguenze del sistema del signoraggio bancario le abbiamo conosciute soprattutto noi, gente del sud.

Quando la parte egemone della nuova classe politica italiana avallò, con l’unità, quel sistema, decise, in realtà, di creare una finta nazione, divisa in due per l’ingordigia dei più furbi e prepotenti e a danno dei più deboli, e nella quale ci sarebbe stata abbondanza di denaro solo per i “fratelli” vincitori della padania, a fronte di una cronica penuria dei fratellastri conquistati del sud.

Fu grazie, anche, alla consapevole e colpevole rinuncia del nuovo stato che, come avrebbe detto il prof. Auriti, anziché “stamparsi” da se e a costo zero il denaro occorrente ai suoi bisogni, preferì farselo prestare dalla banca privata “Nazionale”, pagandone anche gli interessi, che si realizzò quanto era da tempo disegnato nella mente dei poteri massonico-bancari internazionali e in quella delle logge tosco-padane, loro alleate.

Ma per poter far questo la banca “Nazionale” di Cavour aveva bisogno dell’oro e dell’argento del sud, senza i quali non avrebbe mai potuto accumulare la riserva necessaria ad emettere l’enorme quantità di cartamoneta da destinare ai bisognosi “fratelli del nord”.

E fu così che il denaro creato sulla spoliazione delle ricchezze del sud, venne dato in prestito dalla “Nazionale” e dalle sue affiliate al nuovo stato italiano, il quale, con la scusa del suo alto costo, lo faceva nel tempo "bastare" solamente ai bisogni “improrogabili” delle regioni settentrionali, mentre il “debito pubblico” che ne conseguiva lo faceva distribuire a tutti, ma con un peso diseguale per i meridionali, a causa della spaventosa penuria monetaria imposta nel mezzogiorno d’Italia dai nuovi governanti, ed utilizzata come un vero e proprio strumento di dominazione.

Naturalmente, ogni volta che i “terroni” tentavano di reclamare i loro diritti, l’artiglieria dell’esercito italiano e quella delle organizzazioni “mafiose”, alleate fedeli dei poteri forti, nonché l’ancor più subdola offensiva dei mezzi di comunicazione, facevano piazza pulita di ogni rivendicazione, ristabilendo l’ “ordine” e la “pace” sociale.

E tutto questo per 150 anni, senza che nessuno di quelli che erano a conoscenza di tali cose osasse tentare qualche rimedio. L’ascarismo meridionale è stato sempre remunerato anche per mantenere il silenzio sulle discriminazioni causate dal signoraggio bancario.

Oggi, però, i popoli del sud hanno in mano un’autentica possibilità di riscatto.

Grazie agli studi di Auriti e alla sperimentazione del SIMEC, la moneta complementare da lui inventata per favorire le comunità meno sviluppate, essi possono disporre di un’arma formidabile per risvegliare la loro economia e scongiurare, allo stesso tempo, le gravi crisi incombenti sulla produzione locale a causa degli spaventosi monopoli sorti con la globalizzazione.

Con l’intendo di restituire la proprietà della moneta al popolo, l’Auriti ha voluto, infatti, sopperire alla penuria di denaro esistente nella sua Guardiagrele, con l’utilizzo di un simbolo economico, il SIMEC, di proprietà del portatore (quindi non prestato dalle banche), accettato dalla comunità e fatto circolare assieme alla moneta ufficiale, ma con un valore doppio rispetto ad essa.

E questa geniale soluzione ha consentito, per il tutto periodo in cui è stata adottata, il rifiorire della vita e dell’economia del comune di Guardiagrele.

Ebbene, noi meridionali dobbiamo interessarci a tali novità: con l’aiuto di economisti consapevoli, che agiscano in accordo con le amministrazioni locali, dando il via ad un percorso già tracciato con successo dal prof. Auriti, noi potremo finalmente alleviare le nostre sofferenze, dovute prevalentemente alla penuria monetaria ed all’uso esclusivo della moneta-debito ufficiale.

Sull’esempio del SIMEC potremo far sorgere monete locali complementari che risolverebbero, per esempio, anche gli annosi problemi dei produttori agricoli e della piccola industria.

Ma, soprattutto, con l’uso delle monete complementari potremo finalmente vincere la rassegnazione e la sfiducia nelle nostre capacità e nel nostro destino.

(Il prof. Auriti si è spento in silenzio l’11 agosto del 2006. Di fronte ai tanti che hanno schiamazzato sempre per mettere in mostra la loro sconfinata e vuota presunzione, egli ha dato l’esempio di una vita integra, totalmente dedicata alla ricerca e alla difesa della verità.)

Tratto da meridiosiculo.altervista.org


[Leggi tutto...]

Se il Sud fosse uno Stato indipendente, sarebbe il più povero dell'Unione europea?

di Antonio Pagano

Questa affermazione è comparsa alla fine di agosto 2005 sulla rivista scientifica internazionale Plus Medicine da una indagine statistica effettuata da due ricercatori dell'Istituto Mario Negri di Milano, Rita Campi e Maurizio Bonati, i quali da anni raccolgono gli indici sulle condizioni socio-sanitarie di bambini e adolescenti.


Costoro hanno fatto risultare che vi è una enorme disuguaglianza tra Nord e Sud e, disaggregando i dati delle singole regioni, hanno tratto la conclusione che, se si considerasse il Sud come uno Stato indipendente all'interno dell'Unione Europea, sarebbe il più povero.


I dati da cui hanno tratto le loro conclusioni riguardano però solo la mortalità infantile, che risulta quattro volte superiore al resto d'Italia, e l'ospedalizzazione: "Oltre il 22% dei piccoli pazienti della Basilicata e del Molise, e oltre il 13% di quelli calabresi e abruzzesi deve ricorrere a ospedali del Centro-Nord.


Una vera e propria migrazione sanitaria". L'affermazione, presentata poi con l'immagine suggestiva di un eventuale "Sud-Stato indipendente", sembra voler accreditare ai meridionali una incapacità congenita di realizzare una sufficiente condizione socio-sanitaria. I dati esposti, invece, mostrano che lo Stato italiano - la Sanità è ancora di sua competenza e il Sud fa parte di questo Stato, almeno di nome - ha destinato al Sud meno risorse, come del resto fa con tutto, per soddisfare prima di tutto gli interessi dei gruppi finanziari del Nord.


L'idea di un Sud come Stato indipendente all'interno dell'Europa è, tuttavia, da prendere in considerazione in quanto è vero proprio il contrario: un Sud indipendente sarebbe ai primi posti in Europa. Come lo eravamo circa 145 anni fa. E vediamo perché.


Bisogna partire prima di tutto dalla definizione di Stato. Cos'è lo Stato? Al di là delle scolastiche definizioni giuridiche lo Stato altro non è che uno strumento usato per organizzare il popolo e il territorio su cui il popolo è stanziato. Lo Stato, inoltre, per poter funzionare, deve essere sovrano, non deve cioè, nelle sue scelte politiche e amministrative, dipendere né essere condizionato da altri.


Le persone che dirigono l'organizzazione dello Stato sono i politici che si qualificano in genere di "destra" o di "sinistra", termini che però non hanno alcun significato reale. I politicanti fanno basare i movimenti politici su ideali seducenti, escogitati per catturare i consensi delle masse popolari facendo prospettare miti simbolici ben collaudati da secoli: patriottismo, nazionalismo, socialismo, lotta al terrorismo ecc., oppure, con l'inganno, promettendo vantaggi futuri (posti di lavoro, aumento del reddito, previdenza, ecc.), oppure instaurando un fiscalismo opprimente con la promessa di abbassarne i prelievi, oppure con la complicità di gruppi organizzati di elettori (lobby) che, in cambio del voto, ne ricavano vantaggi illeciti.


Strumento essenziale, per lo sviluppo del popolo e per far funzionare l'apparato statale, è il denaro. Il denaro, come si sa, è fatto con carta stampata e metallo coniato. Esso ha la funzione di permettere gli scambi commerciali e di retribuire il lavoro prestato. Attualmente è usato l'Euro che non ha alcun valore intrinseco. Il suo valore, infatti, non è basato su corrispondenti riserve di metallo pregiato o altro tipo di beni, ma semplicemente sul fatto che viene accettato e scambiato di comune accordo da tutti.


Naturalmente la quantità di Euro in circolazione deve essere in armonia con la situazione dell'economia e della produzione (PIL, cioè il Prodotto Interno Lordo) altrimenti ne scaturirebbe "inflazione" (l'eccessivo denaro in circolazione verrebbe svalutato e servirebbe più denaro per acquistare lo stesso prodotto) oppure "deflazione" (poco denaro in circolazione e relativa diminuzione dei prezzi, situazione che comporterebbe contrazione dell'economia e della produzione con conseguente disoccupazione).


Chi allora deve avere il compito di stampare e coniare denaro? Con tutta certezza non può essere che lo Stato che, come abbiamo visto, è lo strumento sovrano del popolo per organizzare la sua vita. Ovvio quindi che esso non possa essere prodotto direttamente dai cittadini: il denaro non avrebbe alcun valore perché la quantità immessa nel mercato sarebbe fuori controllo.


Il denaro è, dunque, il pilastro fondamentale per la vita di un popolo e del suo Stato. Lo Stato tra i suoi compiti deve anche prevedere la sorveglianza delle banche commerciali e di fissare periodicamente il tasso ufficiale di sconto (cioè il costo del denaro dato in prestito alle banche commerciali). Insomma, tutto e tutti dipendono dal denaro.


Eppure in Italia, dall'Unità fatta nel 1861, ad opera del "padre della patria" Cavour, lo Stato fu esautorato della sovranità di emettere denaro, con l'affido ad un ente privato la Banca Nazionale piemontese, cioè a quella che - attraverso vicende quasi sempre molto sporche, es. furto delle riserve in oro di dollari e sterline dei Banchi di Napoli e di Sicilia in epoca fascista - attualmente è la Banca d'Italia.


I proprietari della Banca d'Italia sono banche private (85%), assicurazioni (10%) e altri proprietari minori. In pratica la Banca d’Italia, creando dal nulla il denaro con la sola stampa e conio, lo "presta" poi allo Stato che, per svolgere le sue funzioni, resta assurdamente indebitato (Debito Pubblico) con un privato. Cosa che non avverrebbe se lo Stato, per suo sovrano diritto-dovere, il denaro se lo stampasse esso stesso e lo distribuisse ai cittadini che ne sono naturalmente i proprietari.


Un assurdo così enorme, così grande, che nessuno riesce a vederlo. Una truffa gigantesca ben congegnata: essa consente agli azionisti della Banca d'Italia di arricchirsi non solo con la "restituzione" del debito da parte dello Stato, ma anche di farsi pagare gli interessi (tasso di sconto) su denaro non suo. Solo che il denaro che torna indietro alla Banca è denaro vero perché è frutto del lavoro e dei sacrifici dei cittadini.


Ma ci sono anche altri che ci guadagnano da questa assurda situazione: quelli che amministrano lo Stato. I politici, che formano i governi e i vari apparati dello Stato, maneggiando l'enorme flusso di denaro che lo Stato preleva dai cittadini con imposte e tasse, si arricchiscono anche loro concedendosi stipendi favolosi per fare concessioni ai cittadini, per comprare voti, ecc., anche a scapito dell'efficienza economica e amministrativa dello Stato.


In proposito si può ricordare il governo di Aldo Moro che per istituire l'ENEL col pretesto di "dare la luce a tutti" comperò le azioni della S.I.P. (Società Idroelettrica Piemontese) per una somma pari a 100.000 miliardi di lire, un enorme esborso del tutto inutile perché le concessioni demaniali degli impianti idroelettrici stavano per scadere e, quindi, le azioni avrebbero a breve perso valore.


Quell'enorme cifra fu praticamente tolta per decenni allo sviluppo e alla costruzione di infrastrutture del Sud e servì a finanziare lo sviluppo tecnologico della S.I.P. che passò alla telefonia. Risultato di tale operazione: l'energia elettrica in Italia costa più che in tutti gli altri Stati europei. L'operazione fu una delle tipiche truffe del Nord, ma nessuna formazione politica è andata al fondo della faccenda: nessuno aveva interesse a sputare nel truogolo della gozzoviglia.


Il silenzio dei politici meridionali, in proposito, è stato tombale, come sempre. Addirittura essi ritengono che se il Sud diventasse indipendente non sarebbe in grado di sopravvivere e numerosi sono quelli che si affannano a difendere l’unità, il risorgimento e osannano il Garibaldi.


Eppure quando ho definito costui, in altri miei articoli, ladro, assassino e primo artefice del degrado meridionale, nessuno mi ha dimostrato il contrario. E c’è ancora qualcuno nel Sud che vuole intitolare a lui un teatro a Gallipoli. Sindrome di Stoccolma?


Una cosa è certa: con gente così davvero il Sud non andrà da nessuna parte. Insomma lo Stato viene usato come esattore da parte della Banca d'Italia con la connivenza dei politici, i quali usano anch'essi lo Stato come strumento per arricchirsi. Naturalmente non tutti i politici sono consapevoli e conniventi di quanto avviene, ma certamente costoro sono di una inammissibile e colpevole ignoranza.


Con questo sistema, essendo lo Stato privo di sovranità e usato come strumento truffaldino, non si può dire, dunque, che in Italia esista uno Stato vero, ma solo il suo simulacro. Da questa colossale truffa a danno del popolo, iniziata con i Savoja per "fare l'Italia unita" e continuata con la complicità di tutti i governi fino ad oggi, si può scientificamente affermare che la Banca d'Italia (oggi la BCE) è la vera detentrice del potere, perché essa, appropriatasi della facoltà di stampare denaro, tiene sottomesso il potere politico che "non vede e non sente" pur di stare ben avvinto alla sua greppia.


Basti, in proposito, ricordare il fatto che nessun politico si permise di "chiedere la testa" del Governatore della Banca d'Italia nel 1992, per aver costui fatto perdere allo Stato, cioè a tutti noi italiani, oltre settantamila miliardi per aver ritardato di due settimane la svalutazione della lira - svalutazione ormai certa di circa il 30% - a vantaggio di speculatori internazionali.


Eppure questo genio della finanza fu fatto Ministro dell'Economia (ma si era laureato in Lettere alla Scuola Normale di Pisa), Primo Ministro e Presidente della Repubblica. Naturalmente il tutto sempre ammantato del glorioso risorgimento, dell'unità della patria, dell'inno nazionale e dello sventolare di bandiere tricolori e giacobine. Che bello, che bello!


Con l'istituzione dell'Euro, la Banca d'Italia stampa ancora carta moneta, ma su concessione della Banca Centrale Europea con sede a Francoforte, anch'essa privata (azionisti sono i soci privati delle varie banche nazionali, anche dell'Inghilterra che, pur non essendo entrata nel sistema Euro, detiene tuttavia il 14% delle azioni, e, quindi, degli utili).


La concessione comporta ovviamente un elevato addebito non motivato. Contro il costo di stampa di 0,03 centesimi la BCE pretende 2,50 Euro ogni cento, ovviamente scaricati sullo Stato italiano, pagatore finale, cioè su tutti noi.


L'Unione Europea, è, in sostanza, una unione di banche senza un Governo supervisore. Uno Stato europeo, infatti, non esiste. Cosicché i governanti dei vari Paesi europei usano ora il loro Stato nazionale come esattore della Banca Centrale, la cui greppia è ben più abbondante di quella nazionale e con meno vincoli per l'assenza di un Governo centrale di tutela.


Tra l'altro la BCE consente continuamente di emettere più denaro del necessario (circa il 5% all'anno), cosicché questo surplus, innescando un processo inflattivo, fa diminuire il valore della moneta.


Questo ha l'effetto di una tassa indiretta per i popoli e arricchisce silenziosamente i soci della BCE perché i cittadini e le imprese, causa la forzata svalutazione strisciante, sono spinti a chiedere più denaro alle banche in un'infernale spirale senza fine.


Se la BCE non stampasse una quantità eccessiva di Euro non esisterebbe inflazione. L'inflazione è causata di proposito.


Fazio, rimasto attaccato alle concezioni "nazionali" della Banca d’Italia ancorate al periodo della Lira, è stato allontanato perché dava fastidio: "non aveva capito" che era passato il tempo di fare gli "interessi" nazionali, bisognava ora fare quelli "europei".


Una truffa talmente enorme che si fa fatica a vederne i contorni. Il popolo infatti non se ne accorge, anche perché nessun politico ne parla. Se ne guardano bene. Costoro, interessati a mantenere questo sistema truffaldino, mentono nei pubblici dibattiti in modo spudorato: così la gente crede e si adatta alla situazione ritenendola reale e legittima.


Da tutti si ritiene, infatti, giusto pagare il debito pubblico e che partecipare alle elezioni sia doveroso per poter scegliere al meglio i politici e i partiti onde "essere meglio amministrati per lo sviluppo della vita nazionale".


Nessun programma televisivo è più seguito di quelli in cui c'è un dibattito politico: ma gli spettatori non si rendono conto che è solo una messa in scena (magari anche "combinata" tra gli opposti schieramenti). Un ben collaudato meccanismo psicologico, il cosiddetto "teatrino della politica", che cattura le passioni e il consenso popolare col risultato di nascondere l'enorme truffa dietro celata.


I popoli europei sono ormai ridotti a semplice gregge, particolarmente quelli del Sud-Italia, da tosare il più possibile per far arricchire i gruppi finanziari che dominano i governi.


Questi, servi delle banche, aumentano tasse e tributi con l’ingannevole pretesto dell'inflazione. Invece è vero esattamente il contrario: l'aumento dei balzelli serve solo a produrre deflazione (cioè a far diminuire la quantità di denaro circolante che causa l’aumento dei costi). Così gli imprenditori sono costretti a chiedere denaro in prestito alle banche, che si arricchiscono ancora di più, mentre aumentano fallimenti e povertà.


Per questo, il cosiddetto Debito Pubblico non verrà mai cancellato. È un collaudato meccanismo che fa guadagnare la BCE e i politici (Destra, Sinistra o Centro non fa alcuna differenza: sono tutti d'accordo).


Prima che arrivassero i "liberatori" piemonteso-savojardi il Regno delle Due Sicilie aveva una economia del tutto diversa. Il denaro veniva stampato (fedi di credito) e coniato direttamente dallo Stato. Non esisteva un "Debito Pubblico" inquinato dal pagamento di tasse a favore di una Banca privata.


Il Banco delle Due Sicilie era una banca di Stato e il suo "Debito Pubblico" era fisiologico, dovuto in genere alle pochissime tasse che servivano solo a pagare i servizi che lo Stato effettivamente forniva al popolo. Il Regno delle Due Sicilie era la terza potenza economica in Europa, situazione resa visibile dall'elevata rendita sulla piazza di Parigi.


Il sistema attuale è dunque così organizzato: a) lo Stato italiano è privo di sovranità (tra l'altro è anche occupato da truppe straniere) ed è usato per soddisfare gli interessi dei gruppi finanziari italiani e stranieri; b) le lobby italiane, tutte del Centro-Nord, sfruttano il Sud come una colonia interna in cui vendere i loro prodotti e servizi.


Ovviamente esse impediscono qualsiasi sviluppo che potrebbe rivelarsi pericoloso concorrente del Nord, ad esempio fottersi a qualunque prezzo la Banca del Salento, rea di aver avuto l'audacia di aprire due sportelli in due zone centralissime di Milano, uno in Stazione Centrale, l'altro in piazza Diaz a due passi dal Duomo.


Da ricordare anche la compagnia S. Paolo che, sfruttando il nome del Banco di Napoli, succhia i risparmi del Sud per versarli a Torino con la vergognosa complicità della classe dirigente e politica meridionale. Bisognerebbe impedirle almeno di usare il nome Banco di Napoli! Ma tanto è inutile: ci fotterebbero comunque con l'istituzione della Banca del Sud.


Carpendo la "buona fede" del principe Carlo di Borbone, lo hanno messo a simbolo di questa Banca per attirare i babbioni terroni. Quello che sorprende sempre (e sgomenta) è il vedere con quanta facilità questi polentoni ci fanno fessi come vogliono e senza neanche nasconderlo più di tanto. Vedrete quanti coglioni adopereranno questa Banca del Sud (o del Mezzogiorno)!


È intuitivo comprendere, dunque, che, se il Sud tornasse indipendente, basterebbe il solo fatto di liberarsi dei parassiti nordisti e stampare in proprio armoniosamente il denaro che serve per avere un immediato sviluppo sociale ed economico, come avveniva prima di questa stramaledetta e truffaldina "unità d’Italia".


Un esempio classico in proposito è rappresentato dalle colonie della Nuova Inghilterra in Nord America: i coloni nel XVII secolo emisero direttamente una propria moneta, chiudendo per sempre con la Banca d'Inghilterra. Si ebbe immediatamente uno sviluppo prodigioso, ma quando il preoccupato Parlamento inglese impose nel 1763 l'obbligo di usare per le transazioni commerciali solo la moneta inglese stampata dalla privata Bank of England, gravata da interessi, vi fu subito recessione e migliaia di disoccupati.


Fu per tal motivo che scoppiò la guerra d'indipendenza americana e nacquero gli Stati Uniti. In seguito, però, anche nel nuovo Stato le banche, con subdole manovre, ripresero il loro predominio "prestando" denaro allo Stato. Vi furono tre Presidenti che cercarono di contrastarle ripristinando il denaro come proprietà dello Stato, ma furono tutti e tre assassinati:


Abraham Lincoln (nel 1865), per aver fatto stampare dollari di Stato (Greenbacks); James A. Garfield (1913), per aver denunciato il dominio dei banchieri sulla Federazione; John F. Kennedy (1963), per aver emesso banconote di Stato, subito ritirate dopo la sua morte.


Altro esempio dei nostri giorni è la Cina che sta superando impetuosamente le economie mondiali. Il motivo consiste proprio in questo: la Cina ha una Banca di Stato e non una Banca Centrale privata!


La Cina stampa direttamente il denaro che le serve e non lo chiede in prestito a nessuna banca privata! Non è affatto vero, come ci vogliono far credere, che il lavoro cinese costi poco perché gli operai mangiano un pugno di riso: la Cina si è sviluppata e continua a svilupparsi a ritmi impensabili perché non le gravano addosso i parassiti che le succhiano il sangue, come quelli che affliggono il nostro Sud.


Se, dunque, riuscissimo ad avere un nostro Stato, stampando noi il denaro che serve, noi avremmo sostanziali benefici in ogni campo. Potremmo costruire le infrastrutture che ci hanno sempre negato col pretesto assurdo che mancano i capitali (è come dire che non si possono fare strade perché mancano i chilometri). Potremmo produrre a basso costo in competizione con tutto il mondo. Potremmo avere un sistema sanitario tra i più avanzati.


Potremmo avere la piena occupazione senza dover più emigrare. Infatti, il denaro emesso direttamente dal nostro Stato, cioè dal popolo, non gravato da interessi passivi, potrebbe essere utilizzato senza ostacoli e stimolerebbe la produzione e conseguentemente l'occupazione. Inoltre, cosa importantissima, non si avrebbe né inflazione, né deflazione. Lo dimostra il ducato duosiciliano che non aveva mai perso di valore nei 126 anni di Regno borbonico.


Due Sicilie, marzo 2006

[Leggi tutto...]