domenica 31 agosto 2008

India, la caccia ai cristiani non smuove l'occidente

Questa notizia è dedicata soprattutto a coloro che si informano soltanto attraverso il TG1 delle 20. Costoro infatti, ancora non sanno che in India, più precisamente nello stato dell'Orissa, si è scatenata la caccia al cristiano da parte dei fondamentalisti indù. Finora il bilancio parla di 14 morti, una cinquantina di chiese distrutte, centinaia di case bruciate o distrutte, villaggi messi a ferro e fuoco, decine di migliaia di sfollati. Le violenze anti-cristiane in Orissa vanno avanti da molto tempo, ma l'ondata scatenatasi in questi giorni non ha precedenti. Ad innescarla la morte di un leader religioso indù, pretestuosamente attribuita ai cristiani proprio per scatenare la reazione. A fomentare le violenze sono i gruppi estremisti indù, che mescolano il fondamentalismo religioso al nazionalismo più estremo, ma le autorità locali appaiono compiacenti mentre il governo centrale non sembra avere né la forza né la volontà di fermare le violenze.

Per questo motivo la Chiesa indiana ha ieri chiuso per protesta le 25mila scuole cattoliche dell'India, un pilastro del sistema educativo indiano. “La protesta intende ricordare la carneficina dei cristiani nell’Orissa – sottolinea il card Osvaldo Gracias, presidente della Conferenza episcopale indiana, in un articolo pubblicato da Asia News – acuita dall’incapacità del governo centrale di fermare le violenze, mentre nel Paese monta un sentimento anti-cristiano e i fedeli sono torturati e uccisi”. Il prelato afferma di voler mandare “un segnale chiaro” non solo all’India, ma in tutto il mondo sull’importanza della presenza della comunità cristiana, da sempre in prima fila “nel sociale, nell’educazione e nell’opera di assistenza verso i bisognosi”. Un’opera ancora più significativa in India perché “non tiene conto della differenza di casta” e abbraccia “tutta la popolazione”.

Ed è proprio quest'ultimo uno dei motivi fondamentali dell'odio anti-cristiano, la minaccia che la presenza cattolica porta a quella forma di schiavitù che è il sistema delle caste, difeso con forza dai gruppi nazionalisti indù. Se ne parlerà più diffusamente nel numero del Timone di settembre-ottobre, ma intanto invitiamo tutti i nostri lettori a manifestare solidarietà con i cattolici indiani, sia con la preghiera sia con la diffusione delle informazioni, che sulla stampa occidentale passano con il contagocce. Del resto lo sappiamo già: le violenze contro i cristiani non smuovono le coscienze, non mobilitano i media e le star dello spettacolo e dello sport. Che diamine, non siamo mica il Tibet!

Tocca comunque a noi per primi mostrare solidarietà ai nostri fratelli nella fede. Nel modo più concreto che esista: con il digiuno e la preghiera. Segnaliamo per questo l'iniziativa dell'istituto missionario PIME a Milano, una veglia pubblica di preghiera e digiugno che si terrà il 5 settembre, giorno della festa liturgica della beata Madre Teresa di Calcutta. L'appuntamento è per le ore 18 nella chiesa di San Francesco Saverio in via Monterosa 81, a Milano.

Il Timone, 30 agosto 2008
Fonte: Il Timone

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Un altro duro colpo per Palermo

La nuova Compagnia Aerea Italiana serba un duro colpo all'aeroporto di Palermo e all'economia della Capitale Siciliana. A seguire la presa di posizione del Fronte Nazionale Siciliano, che propone la nascita della Compagnia Aerea Siciliana.


Premesso che non intendiamo cadere nella logica del campanilismo, dobbiamo necessariamente prendere atto del fatto che la recente decisione della nuova Compagnia Aerea Italiana di fare riferimento all'Aeroporto di Catania - e non a Palermo - confermi la perdita di ruolo della nostra Città e del nostro Aeroporto.

Ed è, questa, una tendenza che abbiamo denunziato e denunziamo inutilmente da almeno trent'anni.

La colpa di tutto ciò è da attribuire, non già al "destino", ma al tradimento politico di una classe pseudo-dirigente locale che - (fatte, ovviamente, le dovute eccezioni) - ha, fra gli altri difetti, quello di nutrire il RIGETTO della Sicilianità e la debolezza di fare la "politica" del piccolo favore clientelare, in alternativa ed in sostituzione dell'elaborazione dei grandi progetti di sviluppo.

A questo punto, chiediamo che le scelte della nuova Compagnia Aerea Italiana non siano avventate, nè in questa nè in altra circostanza. E chiediamo che a Palermo si arresti, finalmente, la infelice politica del DEPOTENZIAMENTO dell'Aeroporto "Falcone-Borsellino". E che si attivi una profonda inversione di tendenza. Occorre, cioè, trovare prospettive di sviluppo che non siano la somma di tante centinaia di migliaia di voti di scambio di Destra, di Sinistra e di Centro.

E, a tal proposito, noi Indipendentisti FNS ribadiamo la esigenza che, - a prescindere dai programmi della Compagnia Aerea Italiana, - si dia vita alla Compagnia Aerea Siciliana, che dovrà diventare per la Sicilia (per tutto l'Arcipelago Siciliano) quello che è l'AIR MALTA per la vicina Isola-Repubblica di Malta.


GIOVANNI BASILE
Segretario della Sezione FNS Palermo Centro

Fonte: La Questione Siciliana

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Intervista ad un orgoglioso patriota della Romagna

Orazio Vasta (blog A Rarika) mi ha consigliato la lettura di una bella intervista a una altrettanto bella persona. Si tratta di Giovanni Poggiali, industriale e gentiluomo Romagnolo. Ringrazio calorosamente Orazio per avere cordialmente portato questa intervista alla mia attenzione. Leggi l'intervista qui.

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sabato 30 agosto 2008

Ai Siciliani non far sapere...

Ciò che tutti i Siciliani dovrebbero conoscere della loro storia viene invece artatamente nascosto dai mass-media, dai mezzi di (dis-)informazione e dalla scuola di stato. Se si vuole controllare il presente e il futuro di un popolo basta nascondergli il proprio passato! Per questo voglio riproporvi una splendida pagina di storia scritta da Giuseppe Garretto e ripresa da Meridio Siculo. Siamo nel 1959 ma le parole che seguono sono purtroppo attualissime. Da legger tutto d'un fiato.

da " REALTA' SICILIANA" di Giuseppe Garretto (ed. 1967)



L'anno venturo si celebrerà il primo centenario dell'Unità d'Italia.

Crediamo opportuno, in questa ricorrenza, ricordare, in modo estremamente sintetico, cosa è stato per la Sicilia questo secolo di unità, e nello stesso tempo dire con chiarezza cosa vogliamo che rappresenti per la Sicilia la data del 1960.

La Sicilia ha sempre lottato per la sua autonomia, per la sua indipendenza.

Il ricordo di essere stata un prospero regno indipendente nel periodo normanno e svevo, ha alimentato il suo spirito di autonomia e di indipendenza. Tutti i moti rivoluzionari siciliani non hanno avuto che questo obiettivo.

Nel 1812 il parlamento siciliano votò la Costituzione che proclamava il regno di Sicilia indipendente. Essa fu sanzionata dal re Ferdinando che dal 1802 si trovava rifugiato in Sicilia. Nella Costituzione si diceva chiaramente che se il re avesse riacquistato il regno di Napoli, avrebbe dovuto cedere al figlio « il regno di Sicilia indipendente ».

Caduto Napoleone, Ferdinando riacquistò il regno di Napoli e la prima cosa che fece (18 dicembre 1816) fu quella di... unificare i due regni.

E con la unificazione, ritornò l'accentramento e l'oppressione.

La Sicilia ricominciò a lottare con spirito indomito.

I Siciliani non conoscono la storia della loro piccola Patria. Nelle scuole — et pour cause — non si insegna. E quindi non sanno che dal 1816 — unificazione col regno di Napoli — fino al 1860 compreso, la Sicilia ribollì di moti rivoluzionari che avevano come obiettivo la conquista della libertà, dell'autonomia, dell'indipendenza.

1820. Movimento rivoluzionario a Palermo per il ripristino della Costituzione del 1812 e la indipendenza della Sicilia. Il Borbone mandò da Napoli truppe per reprimere la insurrezione. La repressione fu energica: fucilazioni e deportazioni.

1821. Movimento rivoluzionario a Messina con gli stessi obiettivi. Altra repressione energica con l'intervento di truppe austriache: fucilazioni e deportazioni.

1825. Rivolte e repressioni.

1831. Nuova insurrezione e feroce repressione.

1837. Nuove insurrezioni, specialmente a Messina, Catania e Siracusa, e ferocissima repressione con numerose fucilazioni.

1848. Rivoluzione in tutta la Sicilia: si formò un governo provvisorio che convocò il parlamento, il quale deliberò lo Statuto del nuovo Stato. Il Borbone mandò numerose truppe per combattere i Siciliani: ancora una volta, repressioni.

Però la rivoluzione del 1848 che seppe esprimere un governo, convocare il parlamento, raccogliere truppe, e resistere, sia pure per breve tempo, alle soverchianti forze borboniche, irrobustì lo spirito rivoluzionario dei Siciliani.

Negli anni seguenti al 1848 si hanno sussulti rivoluzionari con le immancabili fucilazioni.
Le ultime vittime dei Borboni furono 13 popolani, fucilati il 14 aprile 1860 in una piazza di Palermo.

Ed ecco che l'undici maggio sbarca a Marsala Garibaldi: la Sicilia insorge. Ogni paese è in rivolta e diecimila giovani accorrono da tutta l'Isola. Questi diecimila giovani guidati da Garibaldi mettono in fuga le truppe borboniche.

Però nelle scuole si è insegnato e si insegna ai Siciliani e a tutta l'Italia che mille uomini sbarcati a Marsala sconfissero l'esercito borbonico e liberarono i Siciliani, i quali, evidentemente, se ne stavano tappati in casa aspettando di essere liberati.

La verità è che se il popolo siciliano, nei moti susseguitisi dopo il 1816, non avesse versato così abbondantemente il suo sangue per la causa della libertà, tenendo vivi e attivi i fermenti rivoluzionari, e non fosse, quindi, insorto nel 1860 inviando diecimila giovani che formarono l'esercito garibaldino, Garibaldi avrebbe fatto la fine di Pisacane e dei fratelli Bandiera.

Noi rendiamo omaggio ai mille garibaldini. Ma è doveroso riconoscere che fu il popolo siciliano a liberarsi dal gioco borbonico per poter vivere libero e indipendente.

E possiamo ancora aggiungere che, mentre 4.000 volontari siciliani rimasero in difesa di Messina, altri 9.800 passarono nel Continente e 1.200 marinai presero servizio nella flottiglia per continuare la lotta contro l'odiato Borbone, simbolo di oppressione e di sfruttamento.

E' bene ricordare che i battaglioni della prima brigata Bixio. che sul Volturno caricarono alla baionetta i vecchi soldati della Germania, calati a sorreggere la tirannide borbonica, erano composti, secondo il rapporto ufficiale, « quasi interamente di giovani siciliani ».

La Sicilia, dunque, aveva lottato per la sua indipendenza.

Ma alcuni Siciliani di grande rilievo, che prima erano stati fautori di una totale indipendenza, si orientarono in seguito verso uno Stato federale, per finire, poi, con l'essere favorevoli allo Stato unitario « purché fosse rispettata l'autonomia regionale ».

Michele Amari: « Se unirsi è necessario, il conservare l'autonomia siciliana è indispensabile ».
Francesco Ferrara: « Le idee di rigido accentramento non sono indigene fra noi, ma cieca imitazione di Francia che l'ha introdotto ».

Vito D'Ondes Reggio: « Casa Savoia, ma con autonomia massima e parlamento separato ».
E Cavour rassicurava i Siciliani scrivendo loro: « La Sicilia ha ben diritto all'autonomia. Essa è la sola terra italiana che abbia antichissime tradizioni parlamentari ».

Cavour fu creduto sulla parola.

Cosicché, osserva Enrico La Loggia, quando il 21 ottobre 1860, fu votato il plebiscito, il relativo consenso fu dato nel naturale convincimento che l'ordinamento regionale fosse sicuro. Cioè: per la Sicilia, massima autonomia e parlamento separato.

Ma dopo il plebiscito, si dimenticarono gli impegni assunti.
Tutto era stato una abietta commedia.

La Sicilia, che pur aveva tanti titoli di nobiltà, constatò, appena spente le luminarie del plebiscito, di essere considerata terra di conquista. Una colonia. E come una colonia fu trattata.
La Sicilia, « questa perla del Mediterraneo, che la natura volle oltre ogni dire bella e che i poeti cantano ancora terra dei fiori e dell'amore, divenne da quel giorno desolata terra di dolore ».

Come poter parlare in poche pagine del calvario che l'infelice Sicilia ha dovuto salire in questi cento anni di unità italiana!

Calvario tremendo.

Arrivata ricca all'Unità, fu ridotta nella più squallida miseria.

Sì, ricca.

Il capitale circolante abbondava, i titoli di rendita sorpassarono il 118, la bilancia commerciale era attivissima. Nel 1859, per esempio, si ebbe un attivo di 35 milioni.

Di passata, è da rilevare che, mentre nella « povera » Sicilia il commercio estero era talmente attivo da dare, nel 1859, una differenza attiva di 35 milioni, nel « ricco » Piemonte, invece, « il commercio estero — come afferma Bolton King — non raggiungeva i... sette milioni ».

«La grande riforma doganale del 1841 — scrive Francesco Maggiore-Perni — assicurò la libertà economica e diede impulso allo sviluppo delle industrie ».

La Sicilia poteva vantare una marina mercantile florida che aveva 40.000 uomini di equipaggio, ed una più florida marina peschereccia che sciamava per il Mediterraneo, ed un insieme di industrie fiorenti, che, se pur non vastissime, contribuivano a rendere più diffuso e più solido un benessere generale.

Le casse di Stato rigurgitavano di denaro, « talché a Palermo si dovette sottosfondare la sala dove si riponeva il contante ». Ed il contante non era costituito da fogli di carta, ma da monete di argento, ed aveva quindi un intrinseco valore.

Il « povero Mezzogiorno » aveva fino al 1860 il doppio dei capitali di tutti gli altri Stati della penisola: Regno delle Due Sicilie, milioni 443,2; tutti gli altri Stati (Lombardia, Ducato di Modena, Parma e Piacenza, Roma, Romagna, Marche e Umbria, Piemonte, Liguria e Sardegna, Toscana, Veneto) milioni 225,2.

A questa somma di 225 milioni, il Piemonte con la Liguria e la Sardegna apportava 27 milioni, e la Lombardia, 8 milioni.

Ma la situazione risultò rovesciata quando si trattò (1861) di accollare al nuovo Stato unitario, i debiti degli Stati preesistenti: La Sicilia (un decimo del territorio unificato) apportò un debito di L. 6.800.000, mentre tutti gli altri Stati apportarono debiti per un totale di 109.756.537. In questa somma, il Piemonte con la Liguria e la Sardegna, vi figura con L. 62.036.255.

Il piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz dipinse la tragedia dell'infelice Sicilia con queste parole, così eloquenti nella loro semplicità: « II 1860 trovò questo popolo vestito, calzato, indu-stre, con riserve economiche. Adesso, l'opposto...».

E' che la Sicilia fu trattata come terra di conquista.

Si rubava, si sfruttava, si opprimeva senza ritegno alcuno.

La prova dello « spirito barbarico » con cui venivano consumate le ruberie in Sicilia, è fornita dall'episodio della confisca di un reliquario contenente una porzione del cuore di San Camillo.
Il canonico Annibale di Francia, vedendosi portar via il reliquario, si preoccupò di salvare la
reliquia e si rivolse, umile e afflitto, ai confiscatoti pregandoli di...
Ma i confiscatori lo interruppero: « La reliquia? Non ci interessa. Eccola. A noi interessa il reliquario ».
Il reliquario era di argento.

Terra di conquista. Nessun rispetto per le cose e, sopratutto, per le persone.

La Sicilia, come scrisse il professore della Università di Palermo, Francesco Maggiore-Perni, e come affermò nel parlamento nazionale il deputato Bruno, « dal 1849 al 1860 godeva di una sicurezza inappuntabile, che era l'ammirazione delle altre nazioni ».
Dopo il 1860. tutto ciò scomparve. Le autorità costituite organizzarono la più spudorata delinquenza. In tutti i campi.

Diego Tajani, mandato in Sicilia quale procuratore generale, durante la missione del generale Medici, trovò uno stato di cose veramente terrorizzante. Le autorità governative esercitavano ingiustizie, ricatti, soprusi, torture indicibili: organizzavano, esse stesse, delitti, furti, cospirazioni, agguati. Il Tajani ne fu esterrefatto. Cercò di porre un freno. Dovette iniziare procedimento penale persino contro il Questore di Palermo per omicidio ed altri reati, denunciando che il detto Questore aveva sempre agito di pieno accordo con lo stesso generale Medici. (Colaianni: nel regno della Mafia).

Il deputato Proto di Maddaloni nel parlamento nazionale, novembre 1861, dopo aver parlato della rapacità dei Piemontesi che annientava ogni risorsa meridionale, e dopo aver affermato che il Mezzogiorno era inondato non solo di travetti, ma anche di operai piemontesi a cui si corrispondeva una paga doppia di quella concessa agli operai meridionali che lavoravano al loro fianco, disse: « I nostri concittadini vengono fucilati senza processo, dietro l'accusa di un nemico personale, magari soltanto per un semplice sospetto... ».

Il conte Saint-Jorioz, piemontese, capitano di Stato Maggiore Generale, venuto nel Meridione per cooperare all'opera « civilizzatrice » svolta dai Piemontesi, finì con l'essere sbigottito constatando tutte le barbarie, le rapine, le vergogne che commettevano i suoi conterranei, ed ebbe l'onestà ed il coraggio di denunciarle:
« Spioni dell'antica polizia, uscieri, commessi di magazzino, etc, sono oggi nominati giudici, prefetti, sottoprefetti, amministratori... Un mio amico trovò installato in qualità di giudice, un individuo che, mediante quattro carlini, gli aveva procurato reiterati convegni con una sgualdrina. Lo arbitrio governativo non ha limiti: un onesto uomo può trovarsi disonorato, da un momento all'altro, per la bizza del più meschino funzionario.
...Facendo un calcolo approssimativo, possiamo arrivare alla spaventevole cifra, per il regno delle Due Sicilie, di 52 mila incarceramenti all'anno, di 9.400 deportati all'anno, mentre sotto l'esecrato governo borbonico, il numero dei carcerati non oltrepassò i 10 mila e i deportati non arrivarono neanche a 94...
...Si fucila a casaccio, senza processo, senza indagini...
...Il reclutamento è stato definito giustamente una tratta di bianchi: si arrestano, si seviziano le madri, le sorelle di ogni presunto refrattario e su di esse si sfrena ogni libidine... ».
Napoleone Colaianni: « Quando in Palermo si presentò all'esame di leva un certo Cappello, non si prestò fede al suo reale sordomutismo e lo si voleva costringere a parlare applicandogli bottoni di fuoco sulle carni. Il suo corpo fu reso una vasta piaga ».

Il medico militare, Antonio Restelli, che aveva applicato per ben 154 volte un ferro rovente su le carni dello sventurato Antonio Cappello per costringerlo a parlare, venne decorato con la croce dei Santi Maurizio e Lazzaro.

Non sappiamo se la stessa decorazione ebbe il tenente Dupuy, savoiardo, per una brillante ed eroica operazione eseguita nel territorio delle Petralie. « Questo ufficiale — dice ancora Colaianni —si presentò, di notte, con gli uomini della sua colonna, in una casina, i cui abitatori, temendo dei briganti, non vollero aprire. Allora il prode militare la circondò di fascine, vi appiccò fuoco e fece morire soffocati i disgraziati che legittimamente resistettero ai suoi ordini ».

Il deputato D'Ondes Reggio, presentando la proposta di inchiesta parlamentare su quanto avveniva in Sicilia (respinta, del resto, dalla Camera) affermava che nell'Isola si faceva strazio dello Statuto, delle leggi, della libertà e della vita dei cittadini; che padri, fratelli, sorelle, madri con i lattanti venivano buttati in carcere e ivi, con colpi di scudiscio, flagellati perché i loro figli e fratelli erano renitenti di leva; che ad alcuni di questi infelici erano stretti i pollici con un nuovo strumento di tortura « tanto che sguizzasse il sangue e la carne, e giungesse fino alle ossa » ; che colonne mobili, in molte province, assediavano con violenza selvaggia paesi e città...

Un episodio: il comandante di un battaglione di fanteria, il maggiore Frigerio, arriva a Licata, l'assedia e fa pubblicare per le strade della cittadina che « se i renitenti non si fossero costituiti alle ore 15 dell'indomani, avrebbe tolto l'acqua alla popolazione e ordinato che nessuno potesse uscire di casa sotto pena di fucilazione ».
Soltanto l'intervento del viceconsole inglese e la dimostrazione della guardia nazionale ottennero che il maggiore desistesse dal togliere l'acqua al paese e dal fucilare i cittadini che fossero usciti di casa.

Ed ecco una cronaca del tempo, pubblicata dal giornale « II Contemporaneo » di Firenze, e riferentesi a soli nove mesi: Morti fucilati istantaneamente 1.841; morti fucilati dopo poche ore 7.127; feriti 10.604; imprigionati 19.741; sacerdoti fucilati 22; case incendiate 918; paesi incendiati 5; famiglie perquisite 2.903; chiese saccheggiate 12; ragazzi uccisi 60; donne uccise 48.
Non fa più meraviglia se a queste popolazioni, trattate con inaudita inumanità, il fìsco togliesse, poi, ogni possibilità di vita materiale. In pochi anni, infatti, in Sicilia, i fondi espropriati raggiunsero il numero di almeno venti mila. Si vide il fisco vendere case e terreni per 5 lire, spesso per meno di 5 lire!

Quale paese coloniale ha pagine più dolorose?

E allora si comprende che Massimo D'Azeglio, piemontese, ma coscienza equanime, esclamasse: « Nessuno vuole saperne di noi... Siamo venuti in odio a tutti e tutti sono divenuti nostri nemici ».

E a Massimo D'Azeglio fanno eco:
Garibaldi che scrive ad Adelaide Cairoli: « Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male, nonostante ciò. non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio ».
E Crispi: « La popolazione in massa detesta il governo di Italia, che, al paragone, trova più tristo del Borbone ».
E il conte Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, piemontese: « Nobili, plebei, ricchi, poveri, clericali, atei, tutti aspirano ad una prossima restaurazione dei Borboni ».
E Settembrini ha queste tremende parole: « La colpa fu di Ferdinando II, il quale, se avesse fatto impiccare me ed i miei amici, avrebbe risparmiato all'intero Mezzogiorno tante incommensurabili sventure ».

Questo, per la Sicilia, fu l'inizio dell'Unità.

Il seguito è stato degno di tanto inizio. L'Isola nostra è stata sempre considerata e trattata come una colonia.

Oppressione e sfruttamento.

Negli anni successivi al 1867, osserva Enrico La Loggia, il continuo drenaggio di capitali siciliani, iniziatosi con la vendita dei beni ecclesiastici (che fruttò più di un miliardo di allora e che andò tutto al Nord), proseguito ed aggravato da oppressivi tributi, il pompaggio dei depositi delle casse postali utilizzati al Nord e il soffocamento delle industrie impoverirono sempre più l'Isola.

Terra di conquista. Terra da sfruttare. Tutte le vessazioni e tutte le sottrazioni divennero ineluttabili.
In Sicilia si producevano 1.300.000 chilogrammi di tabacco; dopo una legge iugulatrice, non se ne produssero che 400.000. Così per il cotone, così per qualsiasi altra espressione della nostra attività economica.

Lo zolfo siciliano fu ostacolato in mille modi: per molto tempo costretto ad estrarsi entro certi limiti e a vendersi entro dati prezzi, mentre quello della Romagna era lasciato libero sia nei prezzi, sia nella quantità.

E si potrebbe continuare per pagine e pagine.

E sempre con fatti precisi. Con cifre. Fatti e cifre che ci tentano.

Ecco:
Maffeo Pantaleoni, nel 1891, provò che il Mezzogiorno contribuiva assai più del Settentrione alle entrate dello Stato, e precisamente avendo il 27% della ricchezza nazionale, pagava il 32% delle imposte.

Il lombardo R. Benini calcolò che lo Stato in Sicilia su 100 di entrate tributarie ne spendeva appena 67, mentre in tutte le altre regioni ne spendeva 103.

Il Bruccoleri dimostrò che per opere di bonifica fino al 1884, mentre in tutta l'Italia si spesero 40 milioni, in Sicilia si spesero... 27 mila lire; e che dal 1886 al 1910 si spese in Sicilia, decima parte del regno, il 2.5 per cento della somma spesa in tutta Italia.

E potremmo parlare del grano duro (22 miliardi l'anno sottratti all'economia siciliana), e delle strade e delle ferrovie e delle tariffe ferroviarie e delle imposte sui terreni (con uguale produzione agricola vendibile, il Piemonte paga 5 miliardi, la Sicilia 11 miliardi), e del disboscamento e della scomparsa della flotta mercantile e della scomparsa delle industrie (1860: in Sicilia addetti alla industria il 38% degli attivi, mentre in Piemonte e in Liguria erano appena il 17%; ora, invece, secondo l'ultimo censimento, nel solo Piemonte gli addetti all'industria sono saliti al 31 % mentre in Sicilia sono scesi al... 15%).

E potremmo parlare anche della politica doganale, della politica dei lavori pubblici, della politica che determina la ripartizione territoriale delle pubbliche spese; potremmo parlare delle scuole, dei servizi sanitari.

E ancora: della bilancia commerciale italiana e siciliana e a che cosa sono servite e servono le valute pregiate ottenute dalle nostre esportazioni (1957: saldo attivo della bilancia commerciale siciliana, 29 miliardi 78 milioni di lire), dai turisti stranieri venuti in Sicilia (1957: 10 miliardi di lire), dagli emigrati.

Ed ancora. 1946: a) gli zolfi siciliani restano bloccati nell'Isola; b) divieto, per la Sicilia, di lavorazione dello zolfo. I produttori di zolfo del Nord, invece, hanno : a) come mercato tutta la penisola; b) la facoltà di molire lo zolfo.

Nello stesso anno; i vetri della fabbrica Maiolino di Palermo non possono andare nel Continente, mentre i vetri delle fabbriche del Continente hanno diritto di libera entrata in Sicilia.

E potremmo parlare anche della Cassa del Mezzogiorno che della dotazione di 1.280 miliardi, avuta nel 1952, avrebbe dovuto darne alla Sicilia il 42%, e invece ne ha dato appena il... 20,12%; delle autostrade; del casinò di Taormina («no» alla Sicilia, ma « sì » al Nord: Venezia, San Remo, Saint-Vincent); dello Statuto siciliano, che sta diventando un chiffon de papier...

Per pagine e pagine, potremmo continuare con semplici elenchi: la lista è lunga, molto lunga. Cen to anni di soprusi, di angherie, di ingiustizie, di oppressione, di sfruttamento, che hanno dissanguato la Sicilia, che l'hanno resa spaventosamente depressa.

Sfruttamento che continua.

« Cari Siciliani — scriveva con profonda tristezza don Luigi Sturzo a proposito degli aiuti americani — è inutile che vi illudiate. Non avrete nulla. Tutto sarà inghiottito dal Nord, dalle industrie parassitarie del Nord. Non avrete nulla ».

Nulla? No, qualcosa riceviamo: insulti. Ecco: appena noi chiediamo quello che per legge ci si .deve, quello a cui abbiamo diritto, ci si risponde che noi facciamo dell'accattonaggio...

Le mani di tutti quei generosi figli della Sicilia, nobili e popolani, che nelle lotte contro il Borbone sacrificarono la vita per l'Unità italiana sognando un avvenire di libertà, di fratellanza e di comprensione, debbono fremere di indignazione.

Eppure, c'è qualcosa che supera tutte le ingiustizie, i soprusi, le vessazioni che in cent'anni han ridotto « depressa » la Sicilia, e che è stato un abominevole attentato alla coscienza siciliana.
L'impegno, cioè, di strappare dall'animo popolare la coscienza delle sue nobili tradizioni, della sua storia meravigliosa.

Quando si vuole opprimere e sfruttare compiutamente un popolo, il metodo più sicuro è appunto di cancellare dalla sua mente ogni ricordo di grandezza e di lotte sostenute per la libertà, segno inconfondibile di una civiltà superiore; e di far penetrare nel suo spirito la convinzione di essere sempre stato, nella storia, un miserabile, spregevole oggetto, e mai soggetto.

Applicando questo metodo, si sono impegnati ad oscurare a poco a poco la coscienza siciliana, una volta così fiera e gelosa delle istituzioni, dei costumi, delle tradizioni, della secolare autonomia e delle franchigie costituzionali isolane. Oscurare la coscienza fino a farle dimenticare la sua storia, che è storia stupenda.

Chi ricorda più che in Sicilia sorse il primo Stato della Cristianità e che « Palermo fu per molto tempo, come scrisse Renan, la capitale politica, economica, intellettuale dell'Europa? »

Chi ricorda che « l'Università di Palermo, nei primi anni del 1800, poteva rivaleggiare con quelle delle prime città di Europa per rinomanza e celebrità di professori? Che Palermo possedeva un Gabinetto di Fisica, un Teatro Anatomico, un Laboratorio di Fisica, un Museo di Antichità, un Orto Botanico, una Specola, che erano divenuti celebri in Europa? »

Chi ricorda più che Vittorio Amedeo partendo dall'Isola condusse con sé insigni Siciliani che aprirono al Piemonte, in ogni campo, quelle vie del progresso, che sempre gli erano state precluse. « La Sicilia — confessa Carlo Botta — mandava al Piemonte generosi spiriti per mondarlo dalle male erbe che in troppa gran copia vi erano cresciute ».

Oscurare la coscienza fino a farci dimenticare la nostra storia, che è storia stupenda.
E affinchè questo oscuramento fosse completo sì da diventare buio totale, si inventò la teoria della razza inferiore. Il Niceforo rivelò ai Siciliani che essi appartenevano ad una razza inferiore, mentre gli abitanti del Nord appartenevano alla razza superiore... L'oppressione e lo sfruttamento, quindi, dei primi, cioè dei Siciliani, diventava lo esercizio di un diritto naturale da parte di quelli della razza superiore!

Se questa teoria fu confutata scientificamente, essa rimase norma politica.

E si comprende, allora, l'abiezione della borghesia siciliana, che, perduta la vera fierezza e l'orgoglio della sua terra, e posseduta solamente da libidine di servilismo, è felice di genuflettersi davanti a quelli del Nord per averne attestati di... rispettabilità; è felice di strofinarsi agli affaristi del Nord, ai quali, con fare e intenti di mezzano influente, facilita, nella martoriata Sicilia, ogni impresa di rapina; è felice, per maggiormente distinguersi nella scala servile, di collaborare con quelli che opprimono il popolo.

E come si comprende anche che i nostri fratelli siciliani che vanno al Nord in cerca di un tozzo di pane, in quel Nord che le loro sofferenze hanno arricchito (« si subordina la fame del Mezzogiorno alla sazietà del Settentrione », si legge nel Bollettino economico del Banco di Sicilia del 1947) tentano di nascondere come una vergogna la loro origine isolana.
E forse non tutti i Siciliani che si son sentiti dire « lei non sembra siciliano », hanno avvertito il sanguinoso oltraggio che c'è nel... complimento.

Noi, ne abbiamo sempre risentito dolore e umiliazione.

« Lei non sembra siciliano... » Per codesti signori il Siciliano è un miserabile Negro (e chiediamo scusa ai nostri fratelli Negri) che per uno scherzo di natura è venuto al mondo con la pelle bianca.
Ecco il calvario che la derelitta Sicilia è stata costretta a salire in cent'anni di Unità.
— Ma, allora, — ci si dirà — voi non festeggerete il centenario?
— No. Noi non festeggeremo questo centenario. Sarebbe l'estrema abiezione benedire ed esaltare la via che ci ha condotti alla più spaventosa depressione nel campo materiale e, ciò che più conta, nel campo morale. Solo da servi che hanno perso ogni residuo di dignità, si potrebbe esigere una cosa simile.
— Allora, siete separatisti?
— No. Non siamo separatisti, malgrado questa realtà unitaria italiana ci spinga con tanta violenza ad esserlo. Diremo meglio: appunto perché non separatisti, noi ci rifiutiamo di festeggiarlo. La Unità, infatti, — come ha scritto un grande Siciliano — non è stata che il trionfo del più bieco separatismo: un separatismo di ingorda speculazione, che ha diviso l'Italia in due zone, perfettamente distinte, con un'azione giammai interrotta in danno del Mezzogiorno e della Sicilia in modo particolare.

Noi siamo unitari. Sinceramente unitari. In senso italiano ed europeo. Le divisioni, oggi, non hanno senso. Sono deleterie. Ma « l'esistenza di una nazione, come scrisse Renan, è un plebiscito di ogni giorno, come l'esistenza di un individuo è l'affermazione quotidiana della sua vita ».
E « il plebiscito di ogni giorno » ha esigenze che oggi non sono soddisfatte. E che noi intendiamo siano soddisfatte. Oggi esiste l'unità materiale. Ma l'unità morale, quella che più conta e che noi vogliamo innanzitutto, non esiste affatto. O. almeno, non c'è fra la Sicilia e l'Italia.

Diciamolo sinceramente, cè... Oh no! Non vogliamo dire le parole che non permettono più nessuna speranza. Diciamo semplicemente che non c'è amore.

E allora, il 1960, che per noi non può essere data di lieti ricordi, noi dobbiamo trasformarlo in una data che segni una speranza. Meglio, un proposito: riprendere il cammino là dove Garibaldi lo interuppe.
Meglio: là, dove Garibaldi e i Siciliani furono costretti ad interromperlo.
La giovane Sicilia, che disperatamente lotta per conquistare condizioni di vita civile, vuole celebrare il centenario dell'Unità alla sua maniera.

Alla sua maniera!

Niente, quindi, disgustosi spettacoli di retoriche false e bugiarde, ma decisa volontà di percorrere in poco tempo il cammino che altri han percorso in cent'anni. E perciò, dando rigoroso bando alle chiacchiere e agli sperperi, tendere tutte le nostre energie per raggiungere rapidamente il meraviglioso fine di « cambiare » la Sicilia.

E ciò sarà l'inizio della vera Unità.
Il cammino sarà aspro, difficile.

Le maggiori difficoltà saranno date non tanto dal secolo di ritardo, quanto da quel complesso coloniale che sono riusciti ad inoculare nel nostro sangue, complesso coloniale che svirilizza, che rende scettici, apatici, diffidenti, vili. E quindi, incapaci di credere in qualche cosa, che vada oltre il meschino « arrangiamento » di una grama esistenza; incapaci di una vita associata e di un lavoro modernamente organizzato e disciplinato; incapaci di ardite iniziative e di impostazioni autonome dei problemi siciliani; incapaci di osare... Osare?... incapaci del più leggero anticonformismo per timore d'un possibile rischio, ancorché minimo.

Scrollarsi di dosso questo funesto mortale complesso coloniale è il primo nostro compito. E' la condizione necessaria e indispensabile per rinascere, più esattamente per nascere, alla vera vita unitaria, che esige rapporti di uguaglianza e non di sudditanza.
Non ci stanchiamo di dirlo, di ripeterlo.

Nella vita occorre credere in qualche cosa che comporta sacrificio, stabilire feconde correnti di fiducia reciproca, e sopratutto occorre, col conforto di una profonda solidarietà, osare ed essere tenaci.

E noi ci rivolgiamo sopratutto ai giovani. Condannando questo secolo di servilismo, di passività, di rinunce, di conformismo, di viltà, essi debbono essere i primi ad acquistare questa nuova coscienza impegnandosi seriamente ad approfondirne i motivi.

Settembre-ottobre 1959

Fonte: Meridio Siculo no. 115

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domenica 24 agosto 2008

Una guerra civile tra cattolici e massoni

“L'Italia è l'unico Paese d'Europa (e non solo dell'area cattolica) la cui unità nazionale e la cui liberazione dal dominio straniero siano avvenute in aperto, feroce contrasto con la propria Chiesa nazionale. L'incompatibilità tra patria e religione, tra Stato e cristianesimo, è in un certo senso un elemento fondativo della nostra identità collettiva come Stato nazionale”: così scrive Ernesto Galli della Loggia. L'unità d'Italia, a suo giudizio, è il frutto di una guerra civile, un'“autentica” guerra civile, combattuta tra cattolici e non cattolici. Guerra che è stata dimenticata, perché “non poteva che essere rimossa, restare non detta e non dicibile” [Cfr E. Galli Della Loggia, Liberali che non hanno saputo dirsi cristiani, in "Il Mulino", n. 349, Bologna 1993 pp. 855-866].

di Angela Pellicciari


Una guerra civile a fondamento dello Stato unitario?

A cominciare da Pio IX e Leone XIII nel secolo scorso, l'opinione di Galli della Loggia è ampiamente condivisa dai cattolici. I Pontefici (diretti testimoni dei fatti del Risorgimento nazionale) lo ripetono in numerosi pronunciamenti ufficiali: l'unità d'Italia è il risultato della guerra scatenata dalla massoneria nazionale e internazionale contro la Chiesa cattolica. Pio IX inizia una meticolosa cronistoria dei fatti nel 1849, all'epoca del suo esilio a Gaeta (esilio cui è costretto perché i rivoluzionari di ogni dove sono piombati a Roma trasformandosi in "romani purosangue" a modello del genovese Mazzini), la continua nel 1855 (dopo la soppressione nel Regno di Sardegna degli Ordini contemplativi e mendicanti) e la riprende nel 1861 all'indomani dell'unità.

Il Papa mette a confronto parole e fatti: da una parte le belle parole d'ordine di liberali, repubblicani e socialisti; dall'altra le violenze e la persecuzione anticristiana che a quelle parole fanno seguito. I massoni, ricorda il Papa, proclamano ai quattro venti di agire nell'interesse della Chiesa e della sua libertà. Si professano cristiani e pretendono di rifarsi alle più genuine volontà di Cristo. Le cose non stanno invero così: "Noi desidereremmo prestar loro fede, se i dolorosissimi fatti, che sono quotidianamente sotto gli occhi di tutti, non provassero il contrario". È in corso una vera e propria guerra, ricorda Pio IX (ma anche Leone XIII e così pure il vescovo di Torino, Fransoni, prima imprigionato poi esiliato): "Da una parte ci sono alcuni che difendono i princìpi di quella che chiamano moderna civiltà; dall'altra ci sono altri che sostengono i diritti della giustizia e della nostra santissima religione". L'obiettivo che i massoni perseguono è "non solo la sottrazione a questa Santa Sede e al Romano Pontefice del suo legittimo potere temporale", ma anche, "se mai fosse possibile, la completa eliminazione del potere di salvezza della religione cattolica" [Cfr l'allocuzione Iandudum cernimus, in "Acta Pii IX", I, III, pp. 220-230]. Nel loro magistero i Papi fanno quanto possono per evitare che la popolazione presti ingenuamente fede alla propaganda liberale e cada nell'inganno che le tendono nemici che si proclamano amici. Se le cose stanno come dicono i Pontefici, bisogna capire che cosa spinge i massoni a professarsi cattolici quando tali non sono.


Una strategia coperta

Nell'Italia dell'Ottocento quasi tutti sono cattolici e la civiltà cristiana, insieme con la lingua, costituisce l'identità vera e profonda di una popolazione che peraltro è da secoli politicamente divisa. Per far trionfare il proprio punto di vista assolutamente minoritario, i liberali ricorrono a una strategia che si potrebbe definire "coperta": da un lato provano in ogni modo a infiltrarsi all'interno della Chiesa per condizionarla dal di dentro (questo obiettivo viene espresso con massima chiarezza in una circolare del 1819 inviata alle varie logge dell'Alta Vendita [Cfr J. CRÈTINEAU-JOLY, L'Église romaine en face de la Révolution, II, Paris 1861, pp. 76-78]); dall'altro colgono ogni possibile occasione per definirsi cattolici perfettamente ortodossi; da ultimo, promuovono sul piano interno e internazionale una campagna di denigrazione e falsificazione sistematica sulle condizioni di tutti gli Stati italiani a eccezione del Piemonte. Si distingue in quest'opera il cattolico Massimo D'Azeglio, teorizzatore della "congiura" all'aria aperta. In I miei ricordi racconta egli stesso del suo incontro a Roma con il "settario" Filippo e del suo aderire alla cospirazione filosabauda per l'ottima ragione di voler scampare alla noia e alla depressione ("perché provavo il bisogno d'aver un'occupazione che sopraffacesse nell'animo mio i pensieri che mi tormentavano", per "aver un modo di passar la malinconia, e finalmente il mio gusto per la vita d'avventure e d'azione"). Con questi sistemi, uniti alla capillare corruzione dei quadri dell'esercito borbonico, la massoneria ritiene di poter convincere la popolazione che sotto i Savoia si può vivere la propria fede in modo più cattolico che sotto il Papa; che i liberali incarnano gli autentici desideri di Cristo meglio del suo presunto Vicario terreno; che la Chiesa può tornare all'originario splendore quando privata delle preoccupazioni terrene, vale a dire quando tutte le proprietà che possiede e che le sono state donate dalla pietà dei fedeli (compresi i conventi in cui vivono monaci e frati con i relativi edifici di culto, i libri, i quadri, le sculture, gli oggetti e gli arredi sacri, incluso ovviamente lo Stato che le appartiene), saranno diventate possesso di quei nobili e borghesi anticristiani che le sapranno far fruttare debitamente in nome delle regole del profitto e del libero mercato.

Con questa operazione che fanno condurre dall'unica Casa regnante disposta, in nome di importanti acquisti territoriali, a svendere la prestigiosa tradizione religiosa, culturale ed etica della nazione, le potenze massoniche e i massoni italiani (tutti esuli a Torino eletta "capitale morale" d'Italia, nuova Gerusalemme, a dire di Pascoli) ritengono di poter finalmente associare l'Italia al novero delle prospere potenze europee che già da tempo (con la Riforma protestante e la Rivoluzione francese) si sono liberate dal "giogo" del cattolicesimo.

Paradossalmente è proprio Galli della Loggia, intellettuale e politologo laico, a rispolverare oggi la guerra civile combattuta durante il Risorgimento. Guerra che la storiografia contemporanea, quella cattolica in testa, ha smesso di ricordare più o meno dal 1925, anno in cui Mussolini pone fuori legge la massoneria.

Per accertare se Galli della Loggia (e i Papi) abbiano o no ragione non ci resta che seguire il metodo di Pio IX: confrontare parole e fatti. Il Regno di Sardegna si autoproclama vessillo dell'onore nazionale, perché unico Stato costituzionale e parlamentare della penisola. I Savoia giustificano l'invasione e l'annessione degli altri Stati (tutti retti da sovrani assoluti) proprio con il pretesto del regime politico costituzionale. Vittorio Emanuele, dicono, non può in alcun modo rimanere insensibile alle grida di dolore che verso di lui si levano da tutte le parti dell'Italia oppressa.


La soppressione degli Ordini religiosi

Esaminiamo allora come i Savoia traducono in pratica questo tanto propagandato amore per la legalità costituzionale e per le libertà dei cittadini. Il primo articolo dello Statuto (che entra in vigore il 4 marzo 1848) dichiara: "La religione cattolica apostolica e romana è la sola religione di Stato". Che cosa fa la Camera dei deputati del Regno sardo-piemontese? Non appena convocata, nella primavera inoltrata del 1848, si esibisce in un attacco frontale alla Chiesa cattolica. È in corso la prima guerra di indipendenza contro l'Austria e le sorti dell'esercito del piccolo Regno sono già compromesse, ma i rappresentanti dell'1,70% della popolazione che ha diritto di voto combattono una loro guerra personale: la guerra contro i gesuiti e gli Ordini affini, definiti "gesuitanti". Per più di due mesi i deputati subalpini si esercitano in interminabili requisitorie contro la Compagnia di Gesù (accusata di essere "rappresentante di un funesto passato", "corruttrice", "appestata", "lue", "eretica", "torbida malaugurata compagnia") e contro gli Ordini religiosi che i deputati ritengono infettati dall'Ordine incriminato. Teorizzano che la Compagnia è una vera e propria peste e che chiunque le si accosta rimane contagiato.

Alla fine di interminabili discussioni, la Camera ratifica la decisione già presa dal re di sopprimere la Compagnia di Gesù, decide di imporre il domicilio coatto ai religiosi (che non si sono macchiati di alcun tipo di reato e sono condannati per il solo "nome" di gesuiti), delibera la requisizione di tutti i beni dell'Ordine (gli splendidi collegi finiscono per trasformarsi per lo più in caserme) e accomuna alla sorte dei figli di sant'Ignazio quegli Ordini religiosi giudicati più pericolosi per la conservazione dell'ordine liberale.

Per qual ragione i deputati Sabaudi fanno tutto ciò? Per amore, ripetono in continuazione, della "vera morale" e della "pura religione". Omettono naturalmente di dichiarare che la morale e la religione cui si rifanno non sono quelle cattoliche.

Nel 1854-1855 è la volta del governo. Il Ministro Cavour-Rattazzi, il governo del connubio tra centro e sinistra costituzionale, si assume la responsabilità di un attacco in grande stile contro la Chiesa cattolica e presenta un progetto di legge per la soppressione (e relativo incameramento di beni) degli Ordini contemplativi e mendicanti [Cfr "Atti del Parlamento subalpino. Documenti", XII, pp. 1631-1640].

Il governo ritiene che monache di clausura e frati abbiano fatto il loro tempo. Pensa che siano istituzioni ottime per un periodo di violenza e di barbarie, ma nocive in un'epoca pacifica e liberale. Il ragionamento di Rattazzi è semplice: gli Ordini contemplativi e mendicanti sono inutili: se tali, sono allora nocivi (sic!). L'argomentazione di Cavour è invece più complessa, perché il conte non ritiene l'inutilità motivo sufficiente a giustificare la soppressione. Cavour si fa pertanto carico di dimostrare "matematicamente", "con fatti e con teoremi", che gli Ordini in questione sono nocivi. Nocivi a che cosa? Al progresso della moderna civiltà. Nocivi alla prosperità economica, industriale, agricola e perfino artistica del Paese. Cavour ritiene di dimostrare il proprio assunto ricorrendo a una prova inoppugnabile: la realtà dei fatti. E la realtà che costata è la seguente: sono molto più ricchi, moderni e progrediti quegli Stati in cui gli Ordini sono già aboliti da tempo. Non solo: là dove non esistono più francescani, domenicani o altri religiosi, è lo stesso attaccamento della popolazione al cristianesimo a essere più profondo. Per tutti questi ottimi motivi gli Ordini, secondo Cavour, sono nocivi. Ergo, a buon diritto vanno soppressi.

Con i discorsi di "Lord Camillo" alla Camera e al Senato [Cfr "Atti... Discussioni", XXI, pp. 2862-2871; cfr anche "Atti... Discussioni Senato", VIII, pp. 767-771] si tocca l'apice della costituzionalità del Regno sabaudo: il presidente del Consiglio di uno Stato ufficialmente cattolico, per sua stessa ammissione, ritiene migliori sotto ogni punto di vista (quello religioso compreso) gli Stati protestanti.

Un'ultima considerazione. Rattazzi, quando in qualità di Guardasigilli e ministro del culto espone alla Camera la necessità di sopprimere gli Ordini religiosi, lo fa ribadendo un'esigenza di stretta competenza del dicastero che dirige. Il ministro Guardasigilli ritiene giunto il momento di fare giustizia. Di fare giustizia all'interno della Chiesa. Di fare giustizia ai beneamati parroci che, tanto utili alla popolazione, vivono con poche lire mentre i molti religiosi che non fanno nulla vivono nel lusso: "È forse giusto, è forse consentaneo ai princìpi della religione che esista questa disparità fra i membri del clero? No certamente". Un ministro di Vittorio Emanuele si propone così di realizzare una giustizia di tipo redistributivo, sottraendo risorse finanziarie e proprietà ad alcuni per beneficiare altri. Il principio è quello che chi possiede più soldi deve dividerli con chi ne ha meno. Il principio è anche quello che chi lavora deve guadagnare per lo meno tanto quanto chi induge nell'ozio.

Nei medesimi anni numerosi intellettuali cattolici, primo tra tutti Donoso Cortés, mettono in guardia i liberali: con i metodi che adottano, preparano la strada al comunismo. Anche Pio IX è al riguardo profeta inascoltato. A cose fatte, è indubitabile che tra liberismo e comunismo c'è una continuità obiettiva. Lenin si limiterà ad applicare, su più ampia scala, i princìpi così ben enunciati dai liberali. Questi "fanno giustizia" solo ai parroci poveri entro la Chiesa (una giustizia che ritorna a loro vantaggio perché si impadroniscono con pochi soldi dell'ingente patrimonio di cui la carità cristiana ha fatto dono alla Chiesa), i comunisti "fanno giustizia" a tutti i poveri con i beni degli stessi liberali.

Ma l'incognita tra princìpi e prassi non si limita a quanto finora rilevato. Così l'articolo 24 dello Statuto recita: "Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge". Tutti, meno i religiosi. Tutti, meno quanti donano beni alla Chiesa. I loro testamenti per diventare operativi devono essere approvati dal governo che li deve purgare "dal sospetto di captazione". E ancora l'articolo 28: "La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi". Libera: a essere libera davvero è la stampa liberale (di cui non viene punito alcun abuso); quella cattolica, invece, non è libera per niente.

Un esempio convincente? Nel 1848, di fronte alla persecuzione che si abbatte sui gesuiti, il provinciale dell'Ordine, padre Pellico, così scrive a Carlo Alberto: "Era semplicemente dichiarato da V. M. nella nuova legge sulla stampa che dovesse rimaner inviolato l'onore delle persone e dei ministri della Chiesa. Ma pare che nell'avvilire e calunniare i gesuiti non si tema di trasgredire la legge […] esposti per la sola qualità di gesuiti al pubblico odio o alla diffidenza e al dispregio. Intanto però i giornali e i libelli che ci fanno la guerra, approvati in ciò dalla censura, hanno diritto di rifiutare le nostre smentite; né tuttavia abbiam noi un altro organo imparziale da stamparle con uguale pubblicità, se pure non ci venga concesso di farlo per via della gazzetta del Governo" [Cfr A. MONTI, La Compagnia di Gesù nel territorio della Provincia Torinese, V, Chieri 1920, pp. 78-79].

Un altro esempio? Nel 1852 il Guardasigilli Boncompagni fa arrestare e imprigionare a carcere duro il conte Ignazio della Costa, consigliere di Cassazione, reo di aver pubblicato un libro dal titolo Della giurisdizione della Chiesa cattolica sul contratto di matrimonio negli Stati cattolici. Il conte è incriminato per offesa al re, incitamento al sovvertimento dell'ordine costituzionale e disprezzo della legge dello Stato. Quale la colpa? Richiamare alla coerenza e ricordare che, se si è cattolici, bisogna rispettare i decreti del Concilio di Trento. Un particolare che sta stretto a Boncompagni, il quale, mettendo da parte i decreti tridentini, ritiene ugualmente di essere un buon cattolico [Cfr M. D'ADDIO, Politica e Magistratura (1848-1876), Milano 1996, pp. 31-32]. Un ultimo esempio? Cavour vieta nel cattolico Regno di Sardegna la pubblicazione delle encicliche del Papa. Segnaliamo infine l'articolo 29, che enuncia: "Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili". Tutte? Tutte, meno quelle della Chiesa.


Monopolio scolastico

Chiudiamo questi esempi di buon governo liberale, ricordando come insorge in Italia l'ostilità alla scuola privata. I liberali sono all'incirca l'uno per cento della popolazione. È evidente che, potendo scegliere, i cattolici mandino i propri figli a scuole non liberali. A scuole dunque (dal momento che lo Stato è in mano dei liberali) non statali. Si tratta allora di impedire ai cattolici di scegliere, di sopprimere le corporazioni religiose dedite all'insegnamento e di vigilare perché non se ne formino altre. Nessuna libertà di stampa, di parola, di associazione. E nessuna libertà di insegnamento. I cattolici non sono ancora pronti e devono essere pazientemente educati.
La libertà di insegnamento, e cioè la scuola privata, potrà essere reintrodotta solo quando gli italiani avranno imparato a preferire la scuola laica. In pratica, solo quando a nessun genitore verrà più in mente di dare ai propri figli un'istruzione incentrata sul rispetto della fede. A esplicitarlo in modo chiarissimo è uno dei membri più illustri dell'emigrazione italiana a Torino, il filosofo Bertrando Spaventa, che sul Progresso del 31 luglio 1851 scrive: "Noi certo vogliamo la libertà in tutto e per tutto, ma l'applicazione assoluta di questo principio suppone l'eguaglianza di tutte le condizioni". Conclude il filosofo: "Adunque, considerando la questione in modo assoluto, noi vogliamo la libertà d'insegnamento; ma giudichiamo che per essere attuata essa abbisogni di alcune condizioni generali, richieste dallo stesso principio d'uguaglianza e di libertà, le quali ora non si trovano nel nostro Paese". Fedeli a questa logica i governanti liberali del Regno d'Italia sopprimono tutte le corporazioni insegnanti con la conseguenza di riuscire nell'opera meritoria di dimezzare le scuole esistenti.

La prassi politico-ideologica dei governi liberali mette in luce che i princìpi liberali valgono solo e soltanto per coloro che sono liberali. E tutti gli altri? Tutti gli altri devono venire progressivamente illuminati dal credo liberale che a poco a poco lieviterà le masse cattoliche allontanandole dalla superstizione della loro religione. Per il momento è comunque chiaro che i cattolici non devono e non possono contare assolutamente nulla.

Un breve scambio di battute tra Cavour e uno dei membri più influenti della destra, il maresciallo Ignazio della Torre, chiarisce bene questo stato di cose. Siamo nel 1855 e la Camera subalpina discute il progetto di legge governativo per la soppressione degli Ordini religiosi. Della Torre, per smentire la supposta popolarità della legge, invita a entrare in una qualsiasi delle chiese di Torino stracolme di gente e a chiedere per che cosa si stia pregando: "Tutti quelli che interrogherete vi risponderanno che si sta pregando per il progetto di legge". Questa la risposta di Cavour: "L'onorevole maresciallo ha detto che gran parte della popolazione era avversa a questa legge. Io in verità non mi sarei aspettato di vedere invocata dall'onorevole maresciallo l'opinione di persone, di masse, che non sono e non possono essere legalmente rappresentate" [Cfr "Atti... Discussioni Senato", VIII, p. 830.]

Galli della Loggia ha riportato alla luce la guerra civile combattuta in Italia durante il Risorgimento. Non ha però spiegato perché quella guerra è stata "rimossa", essendo "non detta e non dicibile". Gli esempi che abbiamo addotto hanno riempito la lacuna.

Comunque è sicuramente vero: in Italia "l'incompatibilità tra patria e religione, tra Stato e cristianesimo, è in un certo senso un elemento fondativo della nostra identità collettiva come Stato nazionale". L'aspetto singolare è semmai perché la storiografia di questo secolo abbia tardato tanto ad accorgersene.

Altra questione è la domanda: ci è convenuto?

Studi Cattolici n. 437/438, luglio/agosto 1997


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Vite non degne d'essere vissute!

Aborto, eutanasia, eugenetica: lo stato nazista ritorna sotto le vesti della democrazia moderna. E' di questi giorni la notizia che il ministero della Pubblica (dis)Istruzione della Repubblica italiana ha tagliato i fondi per l'insegnamento destinati ai bambini malati di cancro della provincia di Bari. Si ritorna quindi ai tempi di Hitler quando dementi, disabili e malati in genere venivano considerate vite "non degne di essere vissute".

Questo è ciò che comporta la cultura tecnocratica dominante portata alle sue estreme conseguenze. Che segna un ulteriore scollamento delle élite culturali e politiche italiane figlie del Risorgimento dal sentire comune del popolo, la cui cultura per secoli è stata intrisa d'umanesimo e di pietas grazie all'azione missionaria della Chiesa Cattolica. Chiesa che, non dimentichiamolo, inventò gli ospedali in Europa quando il malato era considerato un peso e uno scarto della società... esattamente come sta avvenendo oggi sotto i colpi del secolarismo, che scaglia il suo odio più feroce contro le vite più deboli e indifese!

Vigliacchi! L'inferno è pieno, non vuoto come vorreste farci credere. E' lì che finirete, bastardi!

Per i dettagli si legga l'articolo dell'Espresso "Policlinico, stop alla scuola media per i bambini ammalati di tumore" riproposto dal Partito del Sud e dal blog A Rarika.

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Eutanasia. Ho visto morire Terri Schiavo

Le ultime ore di Terri Schiavo

Il resoconto di un testimone oculare: Padre Frank Pavone, direttore nazionale di Priests for Life, presidente del Consiglio religioso nazionale pro-vita


Come forse avete visto sui notiziari, ero al capezzale di Terri Schiavo durante le ultime 14 ore della sua vita terrena, fino a cinque minuti prima della sua morte. In questo tempo, insieme a suo fratello e sua sorella, le ho comunicato la vostra vicinanza e le vostre preghiere. Le ho detto tante volte che aveva tanti amici nel mondo e molti pregavano per lei ed erano dalla sua parte. Le avevo detto le stesse cose durante le mie visite nei mesi prima che le fosse tolto il sondino dell'alimentazione, e sono convinto che abbia capito.


Conoscevo la famiglia di Terri da circa sei anni e mi hanno messo sull'elenco dei visitatori. Terri era in un ospizio ma fuori dalla porta c'erano dei poliziotti. Se non fossi stato sulla lista non avrei potuto oltrepassare quelle guardie armate perché l'elenco veniva tenuto molto breve e molto molto controllato. Perché ? Perché i fautori dell'eutanasia dovevano riuscire a dire che Terri era una persona che non rispondeva ed era in una specie di stato vegetativo, coma o altra terminologia che vogliono usare per suggerire che non aveva alcuna reazione affatto. L'unico modo di provare che invece rispondeva era di vederla con i propri occhi.

Sono andato da lei nel settembre 2004 e poi ancora nel febbraio 2005.
Quando la mamma mi presenta a lei, mi fissa intensamente. Concentra lo sguardo. Puntava gli occhi su chiunque le stesse parlando. Se qualcuno le parlava dall'altra parte della stanza girava la testa e gli occhi verso la persona che le stava parlando.

Sapete cosa hanno avuto il coraggio di dire certi dottori a questo riguardo? "Oh, sono solo delle reazioni riflesse. Reazioni inconsapevoli dei riflessi." Curioso: è esattamente la stessa cosa che dicono del bambino non nato del video L'urlo silenzioso, quando il bambino apre la bocca e cerca di allontanarsi dallo strumento che sta per distruggerlo. Dicono, "Oh, è soltanto un riflesso automatico." È la frase che usano sempre per disumanizzare la persona.

Io ho detto a Terri che c'erano molte persone nel paese e nel mondo che le vogliono bene e pregano per lei. Mi ha guardato con attenzione. Le ho detto "Adesso Terri, preghiamo insieme, voglio darti una benedizione, diciamo delle preghiere." E allora ho messo la mano sulla sua testa. Lei ha chiuso gli occhi. Io ho detto la preghiera. lei ha riaperto gli occhi alla fine della preghiera. Suo padre si è chinato su di lei e ha detto, "OK Terri, ecco il solletico," perchè lui ha i baffi. Lei rideva e sorrideva e poi vedevo che contraccambiava il bacio. La sua mamma a un certo punto le ha fatto una domanda e io ho sentito la voce di Terri. Cercava di rispondere. Faceva dei suoni in risposta alla domanda della mamma, non a caso in momenti insignificanti. L'ho sentita cercare di dire qualcosa ma non riuscire, a causa della sua disabilità, a formulare le parole. Quindi reagiva.
Ora, la sera prima di morire ero nella stanza probabilmente per un totale di 3-4 ore, e poi per un'altra ora la mattina dopo - la sua ultima ora.

Fratelli e sorelle, descrivere il suo aspetto come "sereno" significa distorcere completamente quello che ho visto io. Qui c'era una persona che da tredici giorni non aveva né cibo né acqua. Era, come potete immaginare, di aspetto molto tirato rispetto a quando l'avevo vista prima. Aveva gli occhi aperti ma andavano da una parte all'altra, oscillavano costantemente avanti e indietro, avanti e indietro. Lo sguardo (l'ho fissata per tre ore e mezzo) lo posso descrivere solo come un misto di paura e tristezza... una combinazione di tremenda paura e tristezza.

Aveva la bocca sempre aperta. Sembrava congelata. Ansimava a boccate rapide. Non era "serena" in alcun senso. Ansimava come se avesse appena corso cento miglia. Ma era un respiro superficiale. Suo fratello Bobby era seduto dirimpetto a me, dall'altra parte del letto. La testa di Terri era in mezzo a noi e sua sorella Suzanne era alla mia sinistra. Siamo stati per un po’ di tempo in preghiera intensa. E abbiamo parlato con Terri, esortandola ad affidarsi completamente al Salvatore. Le ho assicurato continuamente che aveva l'amore e le preghiere di tanta gente.

Le abbiamo tenuto la mano e accarezzato la testa. Durante quelle ore, una delle cose che ho fatto è stato di cantare in latino alcuni dei canti più antichi della Chiesa. Uno era "Victimae Paschali Laudis" che è l'antica proclamazione della risurrezione di Cristo. Là, con davanti agli occhi l'opera mortale della Cultura della Morte, ho proclamato la vittoria della vita. "Vita e morte erano unite in un conflitto straordinario," dichiara il canto. "Il Capitano della vita è morto, ma adesso vive e regna per sempre!"

E poi abbiamo avuto momenti di silenzio... seduti in silenzio a cercare di assorbire quello che stava accadendo.

Ma insieme a Bobby e a sua sorella e Terri stessa, sapete chi altro c'era nella stanza con noi? Un poliziotto. Sempre. Almeno uno. A volte due. A volte tre poliziotti armati erano nella stanza. Sapete perché erano là? Per assicurarsi che non facessimo nulla di proibito, come darle la comunione o magari un bicchier d'acqua. Quando a volte Bobby, seduto dall'altra parte del letto, si alzava di tanto in tanto per chinarsi su sua sorella, il poliziotto si spostava. Andava verso il fondo del letto per vedere direttamente quello che stava facendo. La mattina della sua morte siamo entrati piuttosto presto e dovevo uscire per un'intervista. Per essere puntuale tenevo in mano un piccolo orologio e all'inizio della visita me lo sono messo nella mano sinistra, poi mi sono chinato sopra Terri e ho allungato la mano destra per benedirla. Cominciando a pregare ho chiuso gli occhi e mi sono sentito picchiettare sulla mano sinistra. Era il poliziotto che voleva sapere "Padre, cos'ha nella mano?" Io ho risposto, "È solo un orologino." E lui: "Dovrò tenerlo io mentre lei è qui." Non potevamo tenere in mano niente. Non sapeva neanche cosa fosse. Magari stavo cercando di darle la comunione. Magari avrei cercato di inumidirle le labbra. Chissà quale terribile cosa stavo per fare?

Sapete qual era il colmo? Nella stanza c'era un comodino. Potevo mettere una mano sul comodino e sulla testa di Terri senza spostarmi. Sapete cosa c'era sul comodino? Un vaso di fiori pieno d'acqua. Guardavo i fiori. Erano bellissimi. C'erano rose e altri tipi di fiori e ce n'era un altro dall'altra parte della stanza ai piedi del letto. Due bellissimi mazzi di fiori pieni d'acqua. Nutriti, vivi, bellissimi. E pensavo fra me, è assurdo. Questi fiori vengono trattati meglio di questa donna. Non ha avuto un goccio d'acqua da quasi due settimane. Perché sono qui questi fiori? Che razza di ipocrisia è? I fiori venivano innaffiati. Terri no. E se avessi infilato la mano nell'acqua e ne avessi messa un po’ sulla sua lingua, il poliziotto probabilmente mi avrebbe arrestato e portato via. Certamente mi avrebbe fatto uscire. C'è qualcosa che non va.

Come forse avete visto, coloro che hanno ucciso Terri si sono molto arrabbiati che io lo abbia detto. La notte prima che morisse ho dichiarato ai giornalisti che il suo marito separato Michael, il suo avvocato Mr. Felos, e il giudice Greer erano assassini. Ho anche sottolineato, quella sera e la mattina dopo, che contrariamente alla descrizione di Felos, la morte di Terri non è stata affatto dolce e bella. È stata, al contrario, orribile. In tutti i miei sedici anni di sacerdozio non avevo mai visto nulla di simile.

Dopo che avevo detto queste parole, Felos ed altri a lui vicini hanno cominciato ad attaccarmi sulla stampa e davanti alle telecamere. Alcuni nuovi organi di stampa hanno cominciato a tessere un racconto fatto dei loro attacchi e hanno detto che io "aizzavo le fiamme" dell'inimicizia e dell'odio.

In realtà il motivo della loro rabbia nei miei confronti è molto semplice. Speravano di poter presentare la morte di Terri come atto di misericordia e di serenità. Le mie parole hanno tolto il velo dell'eufemismo, l'hanno chiamato omicidio e hanno fornito una testimonianza oculare del fatto che è stato tutt'altro che dolce. Felos è fautore dell'eutanasia, e come tutti tali fautori, ha bisogno di manipolare il linguaggio, di vendere la morte confezionata in modo accattivante. Qui lui e i suoi amici vedevano un'ottima opportunità di farlo. Ma non avevano previsto che un prete, vedendo la loro opera da vicino, l'avrebbe detto al mondo.

Una delle loro accuse è consistita nel dire che in quanto "persona spirituale" un sacerdote dovrebbe usare parole di compassione e comprensione, e non di veleno. Ma la compassione richiede verità. Un sacerdote è anche un profeta e se non può gridare contro il male, allora non può neanche provocare la riconciliazione. Se ci deve essere guarigione fra queste famiglie o in questo paese, deve cominciare con il pentimento da parte di coloro che hanno ucciso Terri e adesso cercano di coprire il fatto con linguaggio fiorito.

Un altro aspetto della tragedia di Terri Schiavo è che molte persone hanno equivocato la sua causa e quindi la soluzione. Credono che il problema sia che Terri non abbia lasciato alcuna volontà scritta sul fatto di essere mantenuta in vita o meno. Adesso si sentono dire che per evitare un simile problema nella propria vita devono redigere un "testamento biologico". Questo è sia sbagliato che pericoloso.

Il caso di Terri non è stato di accanimento terapeutico, non sopravviveva grazie a trattamenti medici salva-vita. Il suo caso è stato quello di una persona sana la cui vita secondo alcuni era da considerare inutile. Terri non stava morendo, non era attaccata a una macchina per respirare o per far battere il cuore, non aveva una malattia terminale. Ma siccome qualcuno ha pensato che non volesse vivere con la sua disabilità, hanno insistito per introdurre una causa di morte: la disidratazione. (È morta di sete, ndt).

E allora cosa dovrebbe servire un testamento biologico, a parte dire "Vi prego di non discutere se uccidermi, uccidetemi e basta?"

Il rischio nella nostra cultura non è che saremo curati troppo, ma piuttosto che non saremo curati abbastanza. Abbiamo già il diritto di rifiutare le cure mediche. Quello che corriamo il rischio di perdere è il diritto di ricevere le più fondamentali cure umane - come il bere e il mangiare - nel caso dovessimo diventare disabili.

La nostra cultura promuove anche l'idea che, purché si dica di voler morire, abbiamo diritto di farlo. Ma abbiamo un obbligo fondamentale di preservare la nostra vita. Una persona che lasci chiare istruzioni di non voler essere nutrita sta infrangendo il codice morale con la richiesta di suicidio.

Se volete programmare le vostre cure per la salute, non fatelo cercando di predire il futuro. Non potete dire oggi quali trattamenti medici vorrete o non vorrete fare domani perché non sapete in quali condizioni mediche vi troverete, né quali trattamenti saranno disponibili. I testamenti biologici cercano di predire il futuro e la gente può discutere sull'interpretazione di un pezzo di carta esattamente quanto discutono su quello che si afferma che una persona abbia detto in privato.

La soluzione migliore è di nominare un curatore che sia autorizzato a parlare per voi nel momento in cui doveste non riuscire a parlare da soli. Questa dovrebbe essere una persona che conosce le vostre idee e i vostri valori e con la quale parlate di queste cose nei dettagli. Se non potrete parlare voi, il vostro fiduciario potrà fare tutte le domande necessarie ai vostri dottori e al clero e prendere una decisione quando saranno chiari tutti i dettagli della vostra situazione e delle vostre esigenze mediche. Questo è molto più sicuro che cercare di prevedere il futuro. Nominare un fiduciario per proteggere la vostra vita è facile. Il Comitato nazionale per il diritto alla vita ha redatto un "Testamento per vivere" che si trova a www.nrlc.org. Lo consiglio.

Mi tengo in contatto regolare con i genitori di Terri, Bob e Mary Schindler, e i suoi fratelli, Bobby e Suzanne. Sono cristiani forti con un spirito bello e gentile. Se volete scrivere loro potete mandare un messaggio a terri@priestsforlife.org e glielo inoltrerà.

E continuiamo a presentare Terri al Signore, ricordandoci il valore di ogni singola vita, altolocata od oscura, sana o malata.


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Dal Brasile uno stop all'aborto legale

La Commissione della Camera dei deputati brasiliana per la Costituzione con un voto a larghissima maggioranza ha dichiarato incostituzionale il progetto per l’aborto legale.

di Piero Pirovano



Trent’anni fa in Italia con l’approvazione della sempre iniqua legge 194/1978 venne abrogata la norma del codice penale che vietava la pratica dell’aborto procurato.

La storia si sta ripetendo in Brasile, dove da 17 anni le organizzazioni abortiste cercano di cancellare l’articolo 124 del codice penale, il quale sancisce che commette un «crimine» la donna che provochi «l’aborto in sé stessa» o consenta «che altri glielo provochino».

Il tentativo di introdurre in Brasile l’aborto legale però ha sinora trovato una decisa opposizione da parte del Parlamento. Il 9 luglio scorso, infatti, la Commissione della Camera dei Deputati per la Costituzione e la Giustizia, a larghissima maggioranza, ha dichiarato incostituzionale il progetto di legge di Eduardo Jorge e Sandra Starling, che si propone di abrogare l’articolo 124 del codice penale. Solo 4 i deputati (su una quarantina presenti su 60) che hanno votato a favore della costituzionalità del progetto.A sostenere la tesi dell’incostituzionalità è stato lo stesso relatore, Eduardo Cunha.Il dibattitto che ha preceduto il voto è stato teso, in particolare quando due deputati hanno mostrato immagini che documentano la verità dell’aborto, proprio mentre un’altro deputato pro Vida, Carlos Willian, parlava avendo tra le mani due bambolotti.


L’esito del voto è stato salutato con una esplosione di gioia tra i numerosi militanti del Movimento «Pro Vida» presenti tra il pubblico e guidati dal loro presidente Humberto Vieira, il quale sapeva benissimo che il voto della Commissione potrebbe essere ignorato dall’assemblea plenaria della Camera, qualora il il deputato abortista José Genoino dovesse riuscire a raccogliere, tra i suoi colleghi, le 52 firme necessarie, affinché il progetto di legge, sia comunque sottoposto al voto della Camera.

Intanto la Chiesa cattolica, si organizza per meglio promuovere e difendere il Diritto alla vita. Nello Stato di San Paolo (41 tra diocesi e arcidiocesi), il vescovo di Jundiaí, Dom Gil Antonio Moreira, responsabile della Commissione regionale pro Vida, sta impegnandosi perché in tutte le 41 Diocesi si crei una analoga Commissione diocesana.

Avvenire, 7 luglio 2008


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Il Segretario FNS sulla pace ritrovata

Il segretario del Fronte Nazionale Siciliano (FNS), Giuseppe Scianò, ammonisce il Presidente della Regione, Raffaele Lombardo, a non farsi abbindolare da Sgarbi e dal suo falso mito garibaldino (vedasi a proposito il video "Tutti insieme appassionatamente..."). Io ho ancora difficoltà a capire Lombardo. Non capisco se sta giocando a una specie di tira e molla col regime tosco-padano o se ha delle contraddizioni interne in senso unitaristico che proprio non riesce, o forse non vuole, risolvere. A seguire la civilissima presa di posizione di Giuseppe Scianò, della quale devo però contestare un passaggio: lui parla di Massoneria "deviata"; io sono certo che così come non esistono Servizi Segreti "deviati" ma solo Servizi Segreti dello Stato, c'è solo una Massoneria, quella che ha finanziato e realizzato il Risorgimento d'Italia. Non facciamole sconti di nessun tipo!


SALEMI. IL PRESIDENTE DELLA REGIONE NON PUO' NE' DEVE AMNISTIARE I REATI COMMESSI NEL 1860 CONTRO I DIRITTI, GLI INTERESSI DEL POPOLO SICILIANO

Gli Indipendentisti di lu Frunti Nazziunali Sicilianu ritengono che il Presidente della Regione Siciliana, Raffaele LOMBARDO, non si debba fare imbrogliare nè imbrigliare dalle chiacchiere di chi ci vuole prigionieri del falso mito garibaldino e, peggio, del mito del Risorgimento italiano in Sicilia. Non può, insomma, AMNISTIARE Garibaldi e gli altri Padri della Patria (italiana).

A Salemi, il 14 maggio del 1860, la Sicilia fu strumentalizzata e tradita, con il consenso e la complicità dei capi-mafia locali, dei rappresentanti della Massoneria deviata e dei voltagabbana ex-borbonici. E contro la volontà del Popolo Siciliano.

Non bastano le "lapidi" bugiarde per cancellare questa ed altre verità. O per sottrarre al Popolo Siciliano il diritto irrinunciabile a recuperare la propria memoria storica. I fatti realmente accaduti sono fatti realmente accaduti.

Il Decreto del 14 maggio 1860, con il quale Garibaldi assume la Dittatura in Sicilia in nome di "Vittorio Emmanuele" Re d'Italia (che, com'è noto, a quella data era solo Re di Sardegna) è privo di qualsiasi valore giuridico. Ed è in sè un enorme ossimoro. E', invece, paradossalmente, valido esclusivamente in un PARTICOLARE SCOMODISSIMO, del quale nessuno parla. Il "particolare" è - in sostanza - il "riconoscimento" di fatto dello STATO SICILIANO, indipendente e sovrano, risorto nel 1848. Soltanto in presenza dello Stato Siciliano, Garibaldi, infatti, con quel decreto pasticcione, avrebbe potuto spacciarsi per Dittatore, con le funzioni di Capo assoluto dell'antico e glorioso "Regnum Siciliae". Di questo Stato (peraltro, mai nominato in modo esplicito, per restare nell'equivoco) il Dittatore Nizzardo, in modo rozzo ed arrogante, pretendeva addirittura di esercitare le funzioni relative alla LEGATIA APOSTOLICA. Ed era ciò che - in buona sostanza - volevano gli Inglesi, ma solo in quel momento e con LIMITI FERREI. Dopo qalche mese, gli Inglesi stessi non lo ritennero più necessario.

Insomma: di chiaro c'è solo che, fra i tanti imbrogli e dopo la ignobile conquista anglo-piemontese-garibaldina, eseguita su mandato del Governo di Londra, la Sicilia diventò una colonia di sfruttamento interna del Regno Sabaudo. Uno "status", questo, che - mutatis mutandis - è rimasto oggi sostanzialmente in vigore.


GIUSEPPE SCIANO'
Segretario FNS

FONTE: La Questione Siciliana

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sabato 23 agosto 2008

Tutti uniti appassionatamente...

Da lasiciliaweb.it, ripreso dal blog A Rarika:




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venerdì 22 agosto 2008

Con i Mille a Palermo e Napoli


II 5 maggio 1860 Garibaldi ed i suoi Mille partono da Quarto alla volta del Regno delle Due Sicilie.

Cavour è onnipresente e onniveggente e, mentre accredita il Piemonte come unico baluardo europeo contro la rivoluzione, guida le fila della rivoluzione italiana.

A ricordarlo è ancora una volta La Farina in un intervento al Parlamento del 19 giungo 1863: «La spedizione di Sicilia è uno degli atti più audaci e più rivoluzionari che sieno compiuti nella età moderna. Si era in pace col re delle Due Sicilie; non vi era dichiarazione di guerra; ambasciatori andavano e venivano da Napoli a Torino, ed in questo momento il partito capitanato dal conte di Cavour aiutò la spedizione con tutti i mezzi».

Cavour e la Società nazionale non sono i soli a parteggiare per l'impresa: ritornata in auge nel suo instancabile appoggio all'unificazione italiana, con la Francia che per il momento sta a guardare, c'è ancora una volta l'Inghilterra che fornisce a Garibaldi uomini, mezzi, consigli e soprattutto soldi.

Nell'aprile del 1864, mentre è accolto da trionfatore nel paese cui tanto deve, Garibaldi lo ammette senza esitazioni: «Senza l'aiuto di Palmerston, Napoli sarebbe ancora borbonica, e senza l'ammiraglio Mondy non avrei potuto giammai passare lo stretto di Messina».

Lo storico Adolfo Colombo chiarisce nel citato L'Inghilterra nel Risorgimento italiano a cosa Garibaldi si riferisca: «fu provvidenziale che la presenza di navi inglesi a Marsala facesse ritardare il bombardamento alle navi borboniche accorse ad impedire lo sbarco dei Mille; che un corrispondente del Times, l'ungherese Eber, fornisse Garibaldi di preziosissime informazioni che gli aprirono la via a Palermo e che l'ammiraglio inglese Mondy, facendosi mediatore fra Garibaldi ed i Borboni ottenesse la sospensione del bombardamento di Palermo e la firma di un armistizio favorevole a Garibaldi ed ai suoi successi futuri».

Con quali buone ragioni i Mille invadono il Regno delle Due Sicilie? I pareri a questo riguardo sono unanimi: a causa della barbarie del governo borbonico. Citiamo, a mo' di esempio, l'opinione di un alto grado della massoneria sarda, il «Venerabile» Filippo Delpino.

il 10 maggio 1860 all'inaugurazione della loggia Ausonia che abbiamo già ricordato, Delpino compiange, e lo fa con le stesse parole del re, la sorte di quei milioni di italiani che «gemono ancora sotto una dinastia maledetta da tutti per le sue fosche gesta, per la ferocia del suo assolutismo e per i suoi spergiuri».

Chi sono i Mille che salpano accompagnati dalle benedizioni dei liberali di tutti i continenti? Garibaldi li descrive così: «Tutti generalmente di origine pessima e per lo più ladra; e tranne poche eccezioni con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto».

Persone di tal fatta sgominano un'armata di 100.000 uomini: «Quando si vede un regno di sei milioni ed un'armata di 100 mila uomini, vinte colla perdita di 8 morti e 18 storpiati, chi vuoi capire, capisca», così scrive Massimo D'Azeglio al nipote Emanuele il 29 settembre 1860.

Chi vuoi capire! Per provare a capire analizziamo tre autorevoli fonti di parte liberale: il Diario privato politico-militare dell'ammiraglio Carlo Pollion di Persano, l’Epistolario di La Farina, l'opuscolo Cavour o Garibaldi? di Pier Carlo Boggio.

Carlo Persano è l'ammiraglio che porta alla disfatta la flotta italiana a Lissa nel 1866. Incriminato, si difende rendendo pubbliche le sue gesta all'epoca dei Mille.

A quel tempo Persano svolge mansioni delicate: gestisce, per conto di Cavour, la corruzione sistematica dei quadri dell'esercito borbonico; organizza il rifornimento di uomini ed armi; è incaricato (insieme a La Farina) di marcare stretto Garibaldi sorvegliandone da vicino le mosse.

Qualche saggio del compito organizzativo che grava sulle spalle dell'ammiraglio: «Ho dovuto, Eccellenza - scrive a Cavour nell'agosto 1860 -, somministrare altro denaro. Ventimila ducati al Devincenzi, duemila al console Fasciotti, giusta invito del marchese di Villamarina, e quattromila al comitato [...] Mi toccò contrastare col Devincenzi, presente il marchese di Villamarina; egli chiedeva più di ventimila ducati; ed io non volevo neanche dargliene tanti». La politica di Cavour nei confronti degli ufficiali borbonici è della massima comprensione: «Mandi a Genova - scrive a Persano - quegli fra gli ufficiali di marina napoletani che hanno dato le loro dimissioni regolarmente. Non potrò forse dar loro subito un impiego, ma li rassicurerò sulle loro sorti».

Persano racconta che «Cavour aveva data facoltà di assicurare gradi e condizioni vantaggiose a coloro che promuovessero un pronunciamento della squadra borbonica in favore della causa italiana» e che in casi particolari aveva autorizzato «a spendervi qualche somma».

L'ammiraglio svolge bene il compito affidatogli e comunica a Cavour: «possiamo ormai far conto sulla maggior parte dell’officialità della regia marina napoletana».

Anche sul fronte delle armi fila tutto liscio: «noi continuiamo, con la massima segretezza, a sbarcare armi per la rivoluzione, a tergo delle truppe napoletane». Persano è preoccupato solo per la qualità degli uomini che arrivano dal continente: «Converrebbe tener gli occhi ben aperti — scrive a Cavour - sulle spedizioni degli individui che da noi si fanno per qui, e veder modo di ritenere molta gentaglia che muove per queste contrade a nessun altro scopo, se non per quello di pescar nel torbido».

Il risultato di questa sistematica infiltrazione in tutti i gangli vitali della nazione napoletana è il miracolo che stupisce il patriota Ippolito Nievo. Il romanziere veneto così scrive alla sua Bice: «Che miracolo! Ti giuro, Bice! Noi l'abbiamo veduto e ancora esitiamo quasi a credere». Succede l'incredibile: i picciotti «fuggivano d'ogni banda; Palermo pareva una città di morti; non altra rivoluzione che sul tardi qualche scampanìo.

E noi soli 800 al più, sparsi in uno spazio grande quanto Milano, occupati senz'ordine, senza direzione (come ordinare e dirigere il niente?), alla conquista d'una città contro 25 mila uomini di truppa regolare, bella, ben montata, che farebbe la delizia del ministro La Marmora! Figurati che sorpresa per noi straccioni!».

Lo «straccione» Nievo finisce in fondo al mare con la sua nave, carico di tutti i documenti e le ricevute dell'enorme flusso di denaro che accompagna la calata dei Mille in Italia meridionale.

I documenti giacciono ancora sotto una morbida coperta di acqua.

FONTE: Ducexius no. 31

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"L'eucarestia non è un diritto"

L’Eucarestia non è un diritto, ma un dono. E come tale si deve essere nella condizione di riceverlo. E’ quanto afferma il nuovo responsabile del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, mons. Raymond L. Burke, in una interessante e chiarificatrice intervista pubblicata dal mensile Radici Cristiane.

Monsignor Burke, arcivescovo di Saint Louis (USA) fino alla nomina in Vaticano, va alle radici del “lassismo” imperante in fatto di ricezione dell’Eucarestia, puntando il dito contro “l’insufficiente enfasi nella devozione eucaristica”. Ma poi si sofferma sulla necessità di riaffermare la dottrina della Chiesa quanto a “degna ricezione del Sacramento”, ricordando che accostarsi all’Eucarestia in peccato mortale “è un sacrilegio”.

Monsignor Burke inoltre ribadisce con chiarezza “l’obbligo” del sacerdote a rifiutare l’Eucarestia alle “persone che commettono peccati gravi deliberatamente e sono casi pubblici”, menzionando esplicitamente il caso dei politici che appoggiano l’aborto procurato. L’obbligo nel rifiuto si spiega in due modi, dice mons. Burke: “Innanzitutto per la salvezza della persona stessa, cioè per impedirle di compiere un sacrilegio”; e in secondo luogo “per la salvezza di tutta la Chiesa”: cioè “si deve evitare che la gente sia indotta a pensare che si può essere in stato di peccato mortale e accostarsi all’Eucarestia”, e anche per evitare che si pensi che ciò che “finora tutti credono un peccato serio, non debba esserlo tanto se la Chiesa permette a quella persona di ricevere la Comunione”.

Per conoscere meglio e approfondire il valore dell'Eucarestia consigliamo di leggere il quaderno del Timone scritto da don Claudio Crescimanno, "Eucarestia, la verità della dottrina cattolica".

* Il testo integrale dell'intervista a mons. Burke


Il Timone, 14 agosto 2008

FONTE: Il Timone

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Papa: nemico dell'ambiente è l'ateismo

Fino a quando la terra è stata considerata creazione di Dio, il compito di ‘soggiogarla’ non è mai stato inteso come un ordine di renderla schiava, ma piuttosto come compito di essere custodi della creazione e di svilupparne i doni”. E’ questo il passaggio centrale dell’intervento con cui papa Benedetto XVI ha risposto a una domanda sull’ambiente nel corso della conversazione avuta con il clero di Bressanone il 6 agosto scorso.

di Riccardo Cascioli


E’ un intervento fondamentale perché il Papa chiarisce una serie di equivoci e ambiguità sulla questione ambientale di cui sono vittima anche ampi settori della Chiesa. Contrariamente a ciò che hanno scritto i maggiori giornali, Benedetto XVI non ha affatto affermato che “sull’ambiente la Chiesa deve fare di più”, a intendere un sostegno per i movimenti ambientalisti. Il Papa ha invece detto che la Chiesa deve rivitalizzare la sua dottrina della Creazione, che “negli ultimi decenni era quasi scomparsa in teologia”. E’ peraltro ciò di cui era convinto l’allora arcivescovo Ratzinger che proprio per questo nel 1981 decise di tenere nella sua diocesi di Monaco di Baviera una catechesi sulla Creazione (ripubblicata di recente dall’editore Lindau nel volume “In principio Dio creò il cielo e la terra”. E’ qui che la Chiesa deve fare di più, ovvero tornare ai fondamenti della fede cristiana, il che permette di “imparare a capire in tutta la sua falsità” l’accusa al cristianesimo di essere responsabile della distruzione ambientale a causa del suo antropocentrismo.

Da decenni infatti l’ascesa del movimento ecologista va di pari passo con l’attacco alla dottrina della Chiesa che pone l’uomo al vertice della Creazione: per salvare il pianeta – si dice allora – bisogna porre l’uomo alla pari degli animali e dei vegetali perché tutti gli esseri viventi hanno pari dignità. La massima espressione di questa mentalità è stata la promulgazione nel 2000, in sede ONU, della Carta della Terra in cui i diritti universali dell’uomo lasciano il posto alla centralità di una più ampia “comunità di vita” (sulla Carta della Terra, consigliamo di leggere Le Bugie degli Ambientalisti, Piemme).

Il Papa invita i cattolici a capire bene la falsità e il pericolo di questa ideologia, e porta anche l’esempio del monachesimo: “Se osserviamo quello che è nato intorno ai monasteri, come in quei luoghi siano nati e continuino a nascere piccoli paradisi, oasi della creazione, si rende evidente che tutto ciò non sono soltanto parole, ma dove la Parola del Creatore è stata compresa nella maniera corretta, dove c’è stata vita con il Creatore redentore, lì ci si è impegnati a salvare la creazione e non a distruggerla”.

Per il Papa dunque il vero problema per l’ambiente è causato dall’ateismo: “Il consumo brutale della creazione inizia dove non c’è Dio, dove la materia è ormai soltanto materiale per noi, dove noi stessi siamo le ultime istanze (…); E lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi; inizia dove non esiste più alcuna dimensione della vita al di là della morte…”.

Il Timone, 16 agosto 2008

FONTE: Il Timone

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