domenica 20 luglio 2008

E se stessero preparando il saccheggio della Sicilia?

Ecco come il federalismo fiscale puo' affondare l'Isola e le Regioni "deboli"

Sono troppi i boatos sull’imminente svolta che dovrebbe assumere la finanza italiana perché si possa ancora far finta di ignorare quanto questa svolta ci riguardi da vicino.

di Massimo Costa


È di pochi giorni fa la “resa” di Tremonti, che ha dichiarato forfait su tutte le promesse elettorali di calo della pressione fiscale (eccetto l’ICI, con tutte le contraddizioni che ben sappiamo e che ci riguardano assai da vicino in quanto siciliani) in assenza del “federalismo fiscale”; federalismo che peraltro la Lega sbandiera come ragion d’essere della sua permanenza nella maggioranza.

Ma è anche più recente l’indiretta risposta del nostro Governo Regionale che ha progettato un’imposizione autonoma sui profitti energetici (sub specie di tributo ambientale per non incorrere nelle reprimende di Bruxelles), in uno con la rivendicazione, ormai decennale, dei Siciliani a fruire di prezzi alla pompa più vicini a quelli di un paese produttore ed esportatore netto (come la Sicilia sarebbe, se considerata a sé) che non a quelli di un paese consumatore e importatore netto (come la Sicilia è, se considerata tout court parte d’Italia). Beninteso, quest’ultimo è un diritto costituzionale “sacrosanto” dell’Autonomia Siciliana (ma, ancor prima, proprio di ogni elementare logica economica: non si vede perché “perequare” con trasferimenti finanziari di “dubbio” esito a favore di una regione economicamente debole ma di per sé ricca di risorse, quando sarebbe molto più semplice ed efficace lasciarle parte delle risorse stesse). E tuttavia le difficoltà, a Roma come a Bruxelles, sono e saranno (come sono state in passato) tutte eminentemente politiche e stupisce – anzi non stupisce a pensarci bene – il modesto spazio mediatico che una tale serie di provvedimenti ha trovato sinora, modesto ed esclusivamente nell’informativa regionale, in specie “orientale”, laddove invece tutti i cittadini dovrebbero aprirsi gli occhi e sapere qual è la reale posta in gioco.

A queste premesse di fatto ne va aggiunta una di diritto. Il “federalismo fiscale” progettato per le 15 regioni a statuto ordinario (o, in parte, anche per le altre 4 a statuto speciale) è una pallida immagine di quello radicale già disposto dallo Statuto Siciliano.

In una sentenza non troppo lontana della Corte Costituzionale (la 111 del 1999 richiamata poco dopo nella 138 dello stesso anno) si riconosce che le disposizioni attuative (del 1965) dello Statuto in maniera finanziaria (le uniche applicabili intanto, anche se perfettibili) costruivano un ordinamento finanziario “allontanatosi dal disegno originariamente sotteso alla formula testuale dell’art. 36 dello Statuto”, fondato su “una potestà impositiva del tutto autonoma della Regione, in spazi lasciati liberi dalla legislazione tributaria dello stato” (ovviamente “del tutto” pur sempre nell’ambito dei principi generali della legislazione italiana, cioè secondo un principio di potestà legislativa concorrente e non esclusiva in materia tributaria).

Il diverso disegno istituzionale, nonché la diversa disponibilità di risorse naturali (cui andrebbero aggiunte quelle “culturali” concentrate in Sicilia in maniera incomparabilmente più densa rispetto ad altre regioni italiane), suggerirebbero una soluzione diversa rispetto a quella che si prospetta per le Regioni del Sud propriamente detto, e questo sia pur in presenza di una base produttiva e di livelli di reddito pro-capite sostanzialmente omogenei tra Sud continentale e Sicilia.

Ma non vogliamo ora fare “propaganda” di questo sistema o di quest’altro. Ci limitiamo – in questa sede – a tentare di fare chiarezza sui tanti tipi di “federalismo fiscale” possibili, in modo che il dibattito non sia fuorviato da luoghi comuni e che le scelte di campo siano fatte in modo più consapevole. Ci sia consentito dire che i rapporti tra centro e periferia possono – in astratto – essere regolati dai seguenti 7 modelli:

- accentramento fiscale totale;

- accentramento fiscale parziale;

- decentramento di sola spesa;

- federalismo fiscale “coloniale”;

- federalismo fiscale “solidale”;

- federalismo fiscale “radicale”;

- separazione totale (o pressoché tale) delle finanze.

Nel primo caso (accentramento totale), semplicemente, non esistono enti locali. Se esistono sono enti a totale finanza derivata. Spendono su capitoli di spesa disposti dal centro. In pratica non sono altro che organi periferici dello stato (anche se nominalmente detentori di autonoma personalità giuridica). Se ne parla solo per completezza, trattandosi di un modello del tutto superato.

Nel secondo caso (accentramento parziale) l’autonomia di bilancio degli enti è reale. Essi tuttavia dispongono di finanziamenti in “plafond” stabiliti dal centro che possono moderatamente destinare in modo alternativo così come possono manovrare, entro limiti molto stretti, taluni tributi istituiti dallo Stato e destinati al finanziamento delle loro spese. È il sistema in vigore per gli enti locali propriamente detti e non è pensabile al momento una soluzione del genere per le regioni. Si può anche dire che questo è il sistema tradizionale di finanziamento delle regioni a statuto ordinario, progressivamente superato dagli interventi degli ultimi anni.

Nel terzo caso (decentramento di sola spesa) le entrate sono garantite dallo stato (almeno entro certi limiti) e l’ente ha un’autonomia, ampia e reale, nel destinarne la spesa. Nella sua forma più pura questo è stato il modello tradizionale della finanza siciliana. I gettiti “riscossi” (non quelli “prodotti”) nell’Isola andavano (e vanno) alle finanze regionali, le quali ne hanno fatto più o meno l’uso che ne volevano, con pochi adempimenti statali realmente trasferiti dallo Stato alla Regione. Il risultato di quest’autonomia finanziaria monca, valida solo dal lato della spesa ma non da quello dell’entrata, è sotto gli occhi di tutti: l’amministratore, deresponsabilizzato sulle entrate e sui servizi pubblici essenziali, ma autonomo sul fronte della spesa, ha costruito nel tempo una “azienda di erogazione pura”, destinata essenzialmente alla distribuzione di molti stipendi e di pochi servizi pubblici, tipica di un’economia assistita e clientelare.

Nel quarto caso (federalismo coloniale) – che se non si erra è quello invocato dalla Lega e speriamo non coincida con quello pensato da Tremonti – ogni Regione trattiene una quota maggioritaria dei tributi riscossi nel territorio e ne versa una piccola parte alle finanze centrali. Queste, oltre all’oneroso servizio del debito pubblico, si limiterebbero a spenderla su capitoli non ripartibili per regione (difesa, progetti d’interesse nazionale) e in piccola parte le redistribuirebbero al territorio, possibilmente in modo perequativo. In questo modo, fatalmente, il gettito andrebbe tutto o quasi nelle regioni in cui hanno sede legale le maggiori imprese italiane non tenendo conto del fatto che, in realtà, i presupposti d’imposta si formano in maniera diffusa su tutto il territorio. Di fatto si tratterebbe di una colossale rapina ai danni delle regioni più povere che diventerebbero, pertanto, sempre più povere e sempre più rapidamente tali.

Nel quinto caso (federalismo solidale), oltre a tener conto dell’effettiva distribuzione del verificarsi dei presupposti d’imposta (e non dei luoghi fisici di riscossione), lo Stato si dovrebbe impegnare a garantire, con una quota significativa di compartecipazione alle entrate tributarie, a redistribuire i proventi tributari non certo a pioggia o in funzione di chi ha più bisogno, ma in modo da garantire una spesa pro capite minima sui servizi legati ai diritti di cittadinanza, in modo che questi siano uniformi nel territorio statale (a prescindere dal grado di efficienza degli amministratori locali) e in modo da garantire un riequilibrio del gap infrastrutturale che è alla base delle differenze di produttività e delle differenze economiche in genere. I vantaggi di questo federalismo sarebbero quelli di innescare una sana competizione tra le aree del paese, di stimolare l’efficienza della spesa pubblica e di garantire, al contempo, la coesione necessaria ad una finanza unitaria. A nostro sommesso avviso solo questa forma, e non altra, è ad oggi praticabile per le regioni del Sud continentale senza minare l’unità politica dello stato italiano. Sarebbe bene, quindi, che proprio da quelle regioni si levasse qualche voce in più a difesa dei diritti di cittadinanza dei meridionali. Diverso il discorso per le due isole maggiori ed in specie per la Sicilia come si dirà immediatamente sotto.

Nel sesto caso, infatti, (federalismo radicale), la Regione ha potestà tributaria parzialmente o totalmente autonoma (nei limiti di alcuni principi fondamentali stabiliti dallo Stato), fatte salve poche e distinte perequazioni (e tributi erariali per contro) stabiliti tassativamente dalla Costituzione o da legge costituzionale. E questo è proprio il disposto originario del nostro Statuto. Quello che attende ancora applicazione dopo più di 60 anni.

Che questo sia il più adatto per la Sicilia è facilmente dimostrabile. Oggi l’Italia lucra, solo dai prodotti energetici, una somma annua superiore all’intero bilancio della Regione Siciliana. Con la stessa cifra la Sicilia potrebbe rinunciare a qualunque trasferimento dallo Stato (tranne quello ex art. 38, ma lì la storia sarebbe lunga da riprendere in questa sede) ed anzi assumersi tutti i servizi che lo Stato oggi eroga in Sicilia. Potrebbe, solo per fare un esempio particolarmente importante ed attuale, rassicurare scuole e università siciliane, facendosi carico di quanto lo Stato sta tagliando nella sua ritirata generale dalla ricerca e dalla formazione in Sicilia, anzi potrebbe destinare risorse aggiuntive.

Di recente si è letto su una agenzia giornalistica nazionale che Milano “sarebbe” la città che produce più reddito in Italia. Niente di più assurdo. A parte il fatto che nozioni elementari di economia aziendale dovrebbero far conoscere la congetturalità estrema di queste ripartizioni “per comune” dei redditi prodotti, c’è l’ovvia considerazione che la “capitale morale”(?) d’Italia è sede di tutte le maggiori imprese, tra cui molte banche, per non dir altro, che fanno profitti in Sicilia e altrove. Se la Sicilia (e altrove) fossero stati esteri quello stesso reddito non si conterebbe più come “prodotto a Milano”, ferma restando l’organizzazione produttiva delle aziende in parola.

Il settimo caso (completa separazione delle finanze) è invece solo un caso di scuola. Esso è né più né meno che l’indipendenza delle regioni come quella dei paesi del Commonwealth rispetto al Regno Unito. Lo si riporta per sottolineare la stoltezza di chi dice “ognuno si tenga le sue tasse, ma nel quadro dell’unità d’Italia”. Se “ognuno si tiene le sue tasse” non c’è più nessuna “unità d’Italia”!


Il fatto che l’applicazione dello Statuto sia l’unica via per far valer i propri diritti in questo momento storico dovrebbe spingere ad unire tutte le forze politiche siciliane, ché ogni divisione in questo momento sarebbe solo una debolezza. Non è più il tempo di “sommesse preghiere”. Lo Stato sta letteralmente fuggendo dal Sud e dall’Isola e non pare ci sia verso di trattenerlo. Non può però pretendere al contempo di fare cassa con decine di miliardi di euro che dall’Isola provengono e che all’Isola non tornano più. Su questo bisogna essere chiari e duri. Anche nei confronti di Tremonti. Anche per chi milita nel Pdl. Sappiamo bene che sull’attuazione del federalismo fiscale siciliano è già caduto Alessi, è stata fatta saltare l’Alta Corte, è stato boicottato e distrutto il Milazzismo, e qualche altra ombra si getta anche su altri episodi più recenti. Sappiamo che sul petrolio e sull’energia si rischia grosso, molto grosso, e ci vuole molto, molto coraggio. Ma l’alternativa è permettere il saccheggio finale e la desertificazione definitiva per l’economia siciliana. E noi non possiamo affatto permettercelo.

SiciliaInformazioni, 17 luglio 2008

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