di Antonio Socci
C’è qualcuno – fra i partiti che si azzuffano alle elezioni per poi spartirsi la torta del potere – che metterà al primo punto del suo programma la Bellezza, la difesa della Bellezza, il diritto alla Bellezza in questa Italia che fu (e dolentemente sarebbe ancora) la patria della Bellezza? E c’è qualcuno che se ne ricorderà soprattutto a Roma che è la città della Bellezza? Sicuramente no. Eppure la Bellezza non è un lusso, è il pane dei poveri, la loro unica ricchezza. La Bellezza non è fatta di lustrini e veline, povere ombre effimere di un teatro di cannibali (il volto di Madre Teresa era bellissimo e quello di Karol Wojtyla più bello di qualunque attorucolo hollywoodiano). La Bellezza dà senso alla vita. Ammoniva Dostoevskij nei “Demoni” (che è il suo romanzo più politico, quello dove profetizza l’orrore che l’ideologia provocherà nel Novecento): “Sappiate che l’umanità può fare a meno degli Inglesi, che può fare a meno della Germania, che niente è più facile per lei che fare a meno dei Russi, che per vivere non ha bisogno né di scienza né di pane, ma che soltanto la bellezza le è indispensabile, perché senza bellezza non ci sarà più niente da fare in questo mondo”.
C’è qualcuno – fra i partiti che si azzuffano alle elezioni per poi spartirsi la torta del potere – che metterà al primo punto del suo programma la Bellezza, la difesa della Bellezza, il diritto alla Bellezza in questa Italia che fu (e dolentemente sarebbe ancora) la patria della Bellezza? E c’è qualcuno che se ne ricorderà soprattutto a Roma che è la città della Bellezza? Sicuramente no. Eppure la Bellezza non è un lusso, è il pane dei poveri, la loro unica ricchezza. La Bellezza non è fatta di lustrini e veline, povere ombre effimere di un teatro di cannibali (il volto di Madre Teresa era bellissimo e quello di Karol Wojtyla più bello di qualunque attorucolo hollywoodiano). La Bellezza dà senso alla vita. Ammoniva Dostoevskij nei “Demoni” (che è il suo romanzo più politico, quello dove profetizza l’orrore che l’ideologia provocherà nel Novecento): “Sappiate che l’umanità può fare a meno degli Inglesi, che può fare a meno della Germania, che niente è più facile per lei che fare a meno dei Russi, che per vivere non ha bisogno né di scienza né di pane, ma che soltanto la bellezza le è indispensabile, perché senza bellezza non ci sarà più niente da fare in questo mondo”.
Non c’è nessuno che abbia il senso tragico del momento che viviamo. Nessuno che si alzi di un centimetro sopra gli avvenimenti e ne sappia leggere la logica (suicida), il punto di approdo e di crollo. Non solo nella “classe dirigente” (si fa per dire) italiana. La tecnocrazia europea è assai peggiore. Eppure la gente lo sente, avverte che abbiamo perduto l’essenziale. Vorrei sentir dire a qualcuno le parole di Robert Kennedy: “Il dramma della gioventù americana è che sa tutto eccetto una cosa. E questa cosa è l’essenziale”. Continuerà a ignorarlo e ad affossarsi, la nostra gioventù, se – per esempio – le università saranno sempre nelle mani di minoranze fanatiche che inalberano cartelli dove sta scritto: “Non vogliamo padri” (come è accaduto all’Università di Roma per impedire l’arrivo del Papa).
A volte mi viene in mente un’invettiva dell’autore del “Piccolo principe” che dice brandelli di verità: “Odio la mia epoca con tutte le mie forze. In essa l’uomo muore di sete e non esiste al mondo un problema più grande di questo: dare agli uomini un senso spirituale, un’inquietudine spirituale. Non si può vivere di frigoriferi, di bilanci e di politica. Non si può! Non si può vivere senza poesia, senza colore, senza amore. Lavorando unicamente per acquistare dei beni materiali finiremo con il fabbricarci una vera e propria prigione”.
Un inferno. Popolato di demoni e beni di consumo. Di monnezza e di palline da golf perdute. Di vecchi abbarbicati al potere e di giovani incapaci della più piccola nobiltà d’animo. Di assatanati del sesso. Di incapaci di rispettare i deboli. Di ragazze ridotte a cose da possedere anche a costo di violentarle. Di figli ridotti a prodotti da “fabbricare” a proprio gusto o da scartare ed eliminare se “difettosi”. Di una cultura che esalta solo e sempre la brama di possesso, il potere e il denaro (e soprattutto la loro esibizione), mentre la vita reale della metà delle famiglie italiane sta sprofondando letteralmente nella povertà. E se ne approfitta per produrre parole parole parole…
Giorni fa vedevo un programma d’informazione in tv che da anni fa la stessa puntata: non parla che delle bollette e delle buste paga, della finanziaria e della rata del mutuo. Da mesi e da anni. Oltretutto un parlare del tutto vano perché la gente, sempre più impoverita, non si sente dire la verità, non si sente dire “per colpa di chi”. E ora non riesce più neanche ad acquistare le medicine per curarsi. Nessuno ha il coraggio di dire la verità e nessuno la difende.
Ma mi chiedo se la vita e il destino di un popolo sia tutto e solo lì, nelle bollette. Oltretutto questo popolo non fa più figli, perché fare figli significa essere condannati alla povertà; perciò fra venti anni il popolo italiano sarà vicino all’estinzione. Senza speranza. Dicono certi sondaggi che quello italiano è un popolo triste e senza speranza. Nel dopoguerra eravamo molto più poveri, addirittura fra le macerie, un paese in ginocchio. Ma avevamo una grande risorsa che ha fatto “il miracolo”. Qual era? Cosa abbiamo perduto? Perché nessuno sa dirlo? Beh, lo dirò io: la fede cristriana. Questo abbiamo perso. Cioè l’amore alla vita. “L’umanità è giunta a un punto vergognoso! Non siamo liberi da noi stessi. Io parlo perché tutti capiate che la vita è semplice e che per salvarvi, salvare voi stessi e salvare i vostri figli, la vostra discendenza, il vostro futuro, dovete ritornare al punto dove vi siete persi, dove avete imboccato la via sbagliata! Bisogna tornare al punto di prima, in-quel-punto dove voi avete imboccato la strada sbagliata”.
E’ il “folle di Dio”, Domenico, nel film “Nostalghia” di Andrej Tarkovskij, che grida queste parole, poco prima di sacrificare se stesso sopra la statua del Marco Aurelio in Campidoglio. Ma in quale punto abbiamo “imboccato la via sbagliata”? A quale crocevia ci siamo smarriti? Sfogliando un libro di antiche icone russe, Alexander, il protagonista del “Sacrificio” (il successivo e ultimo film di Tarkovskij), si dice colpito da quelle splendide tavole per la “saggezza e spiritualità (…) profonda e virginale nello stesso tempo. Incredibile come una preghiera”. Ma aggiunge, con sconcerto: “tutto questo è andato perduto. Non siamo più neppure capaci di pregare”.
Due sequenze con le quali Tarkovskij ci dice che si sono perdute (o abbandonate) al tempo stesso la Bellezza e la Fede. Che poi sono la stessa cosa. Pavel Edvokimov scrive: “Ciò che è bello è la presenza di Dio fra gli uomini”. Un cataclisma si è dunque consumato agli esordi del Novecento. Preparato da qualche secolo. Si è preteso di cancellare – anche al prezzo di stragi e persecuzioni bestiali – la presenza di Dio fra gli uomini.
Così si è cancellato l’uomo. E si è cancellata anche la bellezza. Infatti non c’è più bellezza, neanche nelle chiese. Non c’è più la forma umana. E non c’è più neanche lo stupore per la realtà creata. Un filosofo straordinario come Wittgenstein diceva: “E ora descriverò l’esperienza di meravigliarsi per l’esistenza del mondo, dicendo: è l’esperienza di vedere il mondo come un miracolo”. Non è più così. I “miracoli” sono stati aboliti innanzitutto dai teologi che si scagliano contro i santi e pretendono di legare le mani alla bontà di Dio. Ebbe modo di prevedere questa china quel grande che era Franz Kafka quando notò: “Non ci sono più miracoli, ma solo istruzioni per l’uso”. Ci sono solo norme, regole, vademecum, anche nella Chiesa che pure è il luogo dei miracoli, che pure sarebbe cielo e terra nuova, dove i miracoli veramente accadono. Dice Tarkovskij: “non si è più capaci di ammettere, neppure per ipotesi, il miracolo”. Perduto il significato siamo precipitati tutti – uomini, popoli e cose create - nell’assurdo e quindi anche nel brutto. L’arte si è disumanizzata e ha celebrato la distruzione del “personaggio uomo” e della realtà creata. Sono diventate “opere d’arte” gli orinatoi e la “merda d’artista”. Così “l’abolizione della bellezza è la fine dell’intelligibilità del mondo” (F. Schuon). Ma è anche la fine del mondo.
da “Libero”, 24 febbraio 2008
Nessun commento:
Posta un commento