L’ITALIA E IL MITO DELLA VIOLENZA “BUONA”
Socialismo massimalista, nazional-fascismo, comunismo gramsciano, azionismo: le moderne culture politiche sorte in Italia hanno ammesso liceità e necessità della violenza. Solo la cultura cattolica é esente da questa grave colpa. Lo ha riconosciuto uno studioso laico, Ernesto Galli della Loggia…
di Angela Pellicciari
In un editoriale
A cominciare, come ovvio, dal momento dell'unificazione: quel Risorgimento che Galli della Loggia così descrive: «Sorti alla statualità da un moto rivoluzionario con alcuni tratti di guerra civile». Come i lettori del Timone sanno, il Risorgimento è stato proprio una guerra rivoluzionaria, giustificata all'estero e presso le élites liberali dei vari Stati preunitari, in nome della lotta al cattolicesimo nelle sua sede di elezione: Roma e l'Italia.
Si trattava di rifare gli italiani secondo criteri illuminati, condivisi all'incirca dall'1 % della popolazione e da questa imposti al restante 99. Rispetto a socialismo, fascismo e comunismo, il liberalismo ha però una peculiarità tutta propria: non rivendica mai il ricorso alla violenza. Ne fa uso sistematico e su larga scala, ma nega con decisione di praticarla. La rivoluzione liberale, vale la pena di ricordarlo, sopprime tutti gli ordini religiosi in nome della Costituzione. Ma la Costituzione stabilisce che la religione cattolica e l'unica religione di Stato. Il liberalismo toglie la libertà alla Chiesa, cioè agli italiani tutti, ma lo fa in nome della libertà.
Se il liberalismo pratica la violenza rivoluzionaria di fatto e non di diritto (Cavour organizza l'invasione di tutti gli Stati preunitari proprio per impedire -così sostiene -lo scoppio della rivoluzione), Socialismo, fascismo e comunismo teorizzano apertamente la bontà della violenza rivoluzionaria. Da questo punto di vista Mussolini e Gramsci sono fratelli gemelli.
Che le cose stiano così lo mostra in modo chiarissimo un dibattito che si svolge al la Camera dei deputati il 26 maggio 1925. È in discussione una legge fortemente voluta da Mussolini per abolire le associazioni segrete, prima fra tutte la massoneria. Quella seduta è l'unica che vede protagonisti Mussolini e Gramsci e riveste di per sé un estremo interesse. Interesse che diventa vivissimo se si entra nel merito degli argomenti affrontati, in particolare quello relativo all'uso rivoluzionario della violenza.
Ecco lo scambio di battute Mussolini-Gramsci: Mussolini: «A proposito di violenze elettorali io le ricordo [a Gramsci] un articolo di Bordiga [alto dirigente comunista] che le giustifica a pieno!».
Gramsci: «Non le violenze fasciste, le nostre. Noi si amo sicuri di rappresentare la maggioranza della popolazione, di rappresentare gli interessi più essenziali della maggioranza
Prosegue Gramsci: «È molto probabile che anche noi ci troveremo costretti ad usare gli stessi vostri sistemi, ma come transizione, saltuariamente. Sicuro: ad adottare gli stessi vostri sistemi, con la differenza che voi rappresentate la minoranza della popolazione, mentre noi rappresentiamo la maggioranza».
Per Gramsci insomma c'è violenza e violenza: la sua e sicuramente buona. Quella degli altri, viceversa, cattiva. Perché? Perché la violenza comunista, cioè quella che rivendica, è, per definizione, progressista. Perché i comunisti, a suo dire, rappresentano «gli interessi più essenziali della maggioranza». Insomma, un atto di fede. Si è tanto parlato e scritto della violenza fascista, si è spesso taciuto di quella rivendicata da Antonio Gramsci, mitico fondatore del Partito Comunista italiano.
Per fede nella bontà dei propri ideali (e dei propri interessi) i liberali mettono a soqquadro l'Italia. Lo fanno nel nome della Costituzione e della libertà, negando la violenza di cui si rendono responsabili. Mussolini e Gramsci esplicitano le cose: l'uso della violenza è giustificato (ad onor
Come profetizza papa Pio IX fin dalla prima enciclica, il disprezzo liberale per le norme fondamentali dello Stato di diritto avrebbe inevitabilmente condotto ad un disprezzo ancora maggiore di tutti i principi
Galli della Loggia ha ragione: tutte le «moderne culture politiche che hanno visto la luce nella penisola», sono intrise
Galli della Loggia descrive un dato di fatto. Chissà se qualcuno ne prenderà atto.
IL TIMONE, anno IX – Luglio-Agosto 2007
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