sabato 30 agosto 2008

Ai Siciliani non far sapere...

Ciò che tutti i Siciliani dovrebbero conoscere della loro storia viene invece artatamente nascosto dai mass-media, dai mezzi di (dis-)informazione e dalla scuola di stato. Se si vuole controllare il presente e il futuro di un popolo basta nascondergli il proprio passato! Per questo voglio riproporvi una splendida pagina di storia scritta da Giuseppe Garretto e ripresa da Meridio Siculo. Siamo nel 1959 ma le parole che seguono sono purtroppo attualissime. Da legger tutto d'un fiato.

da " REALTA' SICILIANA" di Giuseppe Garretto (ed. 1967)



L'anno venturo si celebrerà il primo centenario dell'Unità d'Italia.

Crediamo opportuno, in questa ricorrenza, ricordare, in modo estremamente sintetico, cosa è stato per la Sicilia questo secolo di unità, e nello stesso tempo dire con chiarezza cosa vogliamo che rappresenti per la Sicilia la data del 1960.

La Sicilia ha sempre lottato per la sua autonomia, per la sua indipendenza.

Il ricordo di essere stata un prospero regno indipendente nel periodo normanno e svevo, ha alimentato il suo spirito di autonomia e di indipendenza. Tutti i moti rivoluzionari siciliani non hanno avuto che questo obiettivo.

Nel 1812 il parlamento siciliano votò la Costituzione che proclamava il regno di Sicilia indipendente. Essa fu sanzionata dal re Ferdinando che dal 1802 si trovava rifugiato in Sicilia. Nella Costituzione si diceva chiaramente che se il re avesse riacquistato il regno di Napoli, avrebbe dovuto cedere al figlio « il regno di Sicilia indipendente ».

Caduto Napoleone, Ferdinando riacquistò il regno di Napoli e la prima cosa che fece (18 dicembre 1816) fu quella di... unificare i due regni.

E con la unificazione, ritornò l'accentramento e l'oppressione.

La Sicilia ricominciò a lottare con spirito indomito.

I Siciliani non conoscono la storia della loro piccola Patria. Nelle scuole — et pour cause — non si insegna. E quindi non sanno che dal 1816 — unificazione col regno di Napoli — fino al 1860 compreso, la Sicilia ribollì di moti rivoluzionari che avevano come obiettivo la conquista della libertà, dell'autonomia, dell'indipendenza.

1820. Movimento rivoluzionario a Palermo per il ripristino della Costituzione del 1812 e la indipendenza della Sicilia. Il Borbone mandò da Napoli truppe per reprimere la insurrezione. La repressione fu energica: fucilazioni e deportazioni.

1821. Movimento rivoluzionario a Messina con gli stessi obiettivi. Altra repressione energica con l'intervento di truppe austriache: fucilazioni e deportazioni.

1825. Rivolte e repressioni.

1831. Nuova insurrezione e feroce repressione.

1837. Nuove insurrezioni, specialmente a Messina, Catania e Siracusa, e ferocissima repressione con numerose fucilazioni.

1848. Rivoluzione in tutta la Sicilia: si formò un governo provvisorio che convocò il parlamento, il quale deliberò lo Statuto del nuovo Stato. Il Borbone mandò numerose truppe per combattere i Siciliani: ancora una volta, repressioni.

Però la rivoluzione del 1848 che seppe esprimere un governo, convocare il parlamento, raccogliere truppe, e resistere, sia pure per breve tempo, alle soverchianti forze borboniche, irrobustì lo spirito rivoluzionario dei Siciliani.

Negli anni seguenti al 1848 si hanno sussulti rivoluzionari con le immancabili fucilazioni.
Le ultime vittime dei Borboni furono 13 popolani, fucilati il 14 aprile 1860 in una piazza di Palermo.

Ed ecco che l'undici maggio sbarca a Marsala Garibaldi: la Sicilia insorge. Ogni paese è in rivolta e diecimila giovani accorrono da tutta l'Isola. Questi diecimila giovani guidati da Garibaldi mettono in fuga le truppe borboniche.

Però nelle scuole si è insegnato e si insegna ai Siciliani e a tutta l'Italia che mille uomini sbarcati a Marsala sconfissero l'esercito borbonico e liberarono i Siciliani, i quali, evidentemente, se ne stavano tappati in casa aspettando di essere liberati.

La verità è che se il popolo siciliano, nei moti susseguitisi dopo il 1816, non avesse versato così abbondantemente il suo sangue per la causa della libertà, tenendo vivi e attivi i fermenti rivoluzionari, e non fosse, quindi, insorto nel 1860 inviando diecimila giovani che formarono l'esercito garibaldino, Garibaldi avrebbe fatto la fine di Pisacane e dei fratelli Bandiera.

Noi rendiamo omaggio ai mille garibaldini. Ma è doveroso riconoscere che fu il popolo siciliano a liberarsi dal gioco borbonico per poter vivere libero e indipendente.

E possiamo ancora aggiungere che, mentre 4.000 volontari siciliani rimasero in difesa di Messina, altri 9.800 passarono nel Continente e 1.200 marinai presero servizio nella flottiglia per continuare la lotta contro l'odiato Borbone, simbolo di oppressione e di sfruttamento.

E' bene ricordare che i battaglioni della prima brigata Bixio. che sul Volturno caricarono alla baionetta i vecchi soldati della Germania, calati a sorreggere la tirannide borbonica, erano composti, secondo il rapporto ufficiale, « quasi interamente di giovani siciliani ».

La Sicilia, dunque, aveva lottato per la sua indipendenza.

Ma alcuni Siciliani di grande rilievo, che prima erano stati fautori di una totale indipendenza, si orientarono in seguito verso uno Stato federale, per finire, poi, con l'essere favorevoli allo Stato unitario « purché fosse rispettata l'autonomia regionale ».

Michele Amari: « Se unirsi è necessario, il conservare l'autonomia siciliana è indispensabile ».
Francesco Ferrara: « Le idee di rigido accentramento non sono indigene fra noi, ma cieca imitazione di Francia che l'ha introdotto ».

Vito D'Ondes Reggio: « Casa Savoia, ma con autonomia massima e parlamento separato ».
E Cavour rassicurava i Siciliani scrivendo loro: « La Sicilia ha ben diritto all'autonomia. Essa è la sola terra italiana che abbia antichissime tradizioni parlamentari ».

Cavour fu creduto sulla parola.

Cosicché, osserva Enrico La Loggia, quando il 21 ottobre 1860, fu votato il plebiscito, il relativo consenso fu dato nel naturale convincimento che l'ordinamento regionale fosse sicuro. Cioè: per la Sicilia, massima autonomia e parlamento separato.

Ma dopo il plebiscito, si dimenticarono gli impegni assunti.
Tutto era stato una abietta commedia.

La Sicilia, che pur aveva tanti titoli di nobiltà, constatò, appena spente le luminarie del plebiscito, di essere considerata terra di conquista. Una colonia. E come una colonia fu trattata.
La Sicilia, « questa perla del Mediterraneo, che la natura volle oltre ogni dire bella e che i poeti cantano ancora terra dei fiori e dell'amore, divenne da quel giorno desolata terra di dolore ».

Come poter parlare in poche pagine del calvario che l'infelice Sicilia ha dovuto salire in questi cento anni di unità italiana!

Calvario tremendo.

Arrivata ricca all'Unità, fu ridotta nella più squallida miseria.

Sì, ricca.

Il capitale circolante abbondava, i titoli di rendita sorpassarono il 118, la bilancia commerciale era attivissima. Nel 1859, per esempio, si ebbe un attivo di 35 milioni.

Di passata, è da rilevare che, mentre nella « povera » Sicilia il commercio estero era talmente attivo da dare, nel 1859, una differenza attiva di 35 milioni, nel « ricco » Piemonte, invece, « il commercio estero — come afferma Bolton King — non raggiungeva i... sette milioni ».

«La grande riforma doganale del 1841 — scrive Francesco Maggiore-Perni — assicurò la libertà economica e diede impulso allo sviluppo delle industrie ».

La Sicilia poteva vantare una marina mercantile florida che aveva 40.000 uomini di equipaggio, ed una più florida marina peschereccia che sciamava per il Mediterraneo, ed un insieme di industrie fiorenti, che, se pur non vastissime, contribuivano a rendere più diffuso e più solido un benessere generale.

Le casse di Stato rigurgitavano di denaro, « talché a Palermo si dovette sottosfondare la sala dove si riponeva il contante ». Ed il contante non era costituito da fogli di carta, ma da monete di argento, ed aveva quindi un intrinseco valore.

Il « povero Mezzogiorno » aveva fino al 1860 il doppio dei capitali di tutti gli altri Stati della penisola: Regno delle Due Sicilie, milioni 443,2; tutti gli altri Stati (Lombardia, Ducato di Modena, Parma e Piacenza, Roma, Romagna, Marche e Umbria, Piemonte, Liguria e Sardegna, Toscana, Veneto) milioni 225,2.

A questa somma di 225 milioni, il Piemonte con la Liguria e la Sardegna apportava 27 milioni, e la Lombardia, 8 milioni.

Ma la situazione risultò rovesciata quando si trattò (1861) di accollare al nuovo Stato unitario, i debiti degli Stati preesistenti: La Sicilia (un decimo del territorio unificato) apportò un debito di L. 6.800.000, mentre tutti gli altri Stati apportarono debiti per un totale di 109.756.537. In questa somma, il Piemonte con la Liguria e la Sardegna, vi figura con L. 62.036.255.

Il piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz dipinse la tragedia dell'infelice Sicilia con queste parole, così eloquenti nella loro semplicità: « II 1860 trovò questo popolo vestito, calzato, indu-stre, con riserve economiche. Adesso, l'opposto...».

E' che la Sicilia fu trattata come terra di conquista.

Si rubava, si sfruttava, si opprimeva senza ritegno alcuno.

La prova dello « spirito barbarico » con cui venivano consumate le ruberie in Sicilia, è fornita dall'episodio della confisca di un reliquario contenente una porzione del cuore di San Camillo.
Il canonico Annibale di Francia, vedendosi portar via il reliquario, si preoccupò di salvare la
reliquia e si rivolse, umile e afflitto, ai confiscatoti pregandoli di...
Ma i confiscatori lo interruppero: « La reliquia? Non ci interessa. Eccola. A noi interessa il reliquario ».
Il reliquario era di argento.

Terra di conquista. Nessun rispetto per le cose e, sopratutto, per le persone.

La Sicilia, come scrisse il professore della Università di Palermo, Francesco Maggiore-Perni, e come affermò nel parlamento nazionale il deputato Bruno, « dal 1849 al 1860 godeva di una sicurezza inappuntabile, che era l'ammirazione delle altre nazioni ».
Dopo il 1860. tutto ciò scomparve. Le autorità costituite organizzarono la più spudorata delinquenza. In tutti i campi.

Diego Tajani, mandato in Sicilia quale procuratore generale, durante la missione del generale Medici, trovò uno stato di cose veramente terrorizzante. Le autorità governative esercitavano ingiustizie, ricatti, soprusi, torture indicibili: organizzavano, esse stesse, delitti, furti, cospirazioni, agguati. Il Tajani ne fu esterrefatto. Cercò di porre un freno. Dovette iniziare procedimento penale persino contro il Questore di Palermo per omicidio ed altri reati, denunciando che il detto Questore aveva sempre agito di pieno accordo con lo stesso generale Medici. (Colaianni: nel regno della Mafia).

Il deputato Proto di Maddaloni nel parlamento nazionale, novembre 1861, dopo aver parlato della rapacità dei Piemontesi che annientava ogni risorsa meridionale, e dopo aver affermato che il Mezzogiorno era inondato non solo di travetti, ma anche di operai piemontesi a cui si corrispondeva una paga doppia di quella concessa agli operai meridionali che lavoravano al loro fianco, disse: « I nostri concittadini vengono fucilati senza processo, dietro l'accusa di un nemico personale, magari soltanto per un semplice sospetto... ».

Il conte Saint-Jorioz, piemontese, capitano di Stato Maggiore Generale, venuto nel Meridione per cooperare all'opera « civilizzatrice » svolta dai Piemontesi, finì con l'essere sbigottito constatando tutte le barbarie, le rapine, le vergogne che commettevano i suoi conterranei, ed ebbe l'onestà ed il coraggio di denunciarle:
« Spioni dell'antica polizia, uscieri, commessi di magazzino, etc, sono oggi nominati giudici, prefetti, sottoprefetti, amministratori... Un mio amico trovò installato in qualità di giudice, un individuo che, mediante quattro carlini, gli aveva procurato reiterati convegni con una sgualdrina. Lo arbitrio governativo non ha limiti: un onesto uomo può trovarsi disonorato, da un momento all'altro, per la bizza del più meschino funzionario.
...Facendo un calcolo approssimativo, possiamo arrivare alla spaventevole cifra, per il regno delle Due Sicilie, di 52 mila incarceramenti all'anno, di 9.400 deportati all'anno, mentre sotto l'esecrato governo borbonico, il numero dei carcerati non oltrepassò i 10 mila e i deportati non arrivarono neanche a 94...
...Si fucila a casaccio, senza processo, senza indagini...
...Il reclutamento è stato definito giustamente una tratta di bianchi: si arrestano, si seviziano le madri, le sorelle di ogni presunto refrattario e su di esse si sfrena ogni libidine... ».
Napoleone Colaianni: « Quando in Palermo si presentò all'esame di leva un certo Cappello, non si prestò fede al suo reale sordomutismo e lo si voleva costringere a parlare applicandogli bottoni di fuoco sulle carni. Il suo corpo fu reso una vasta piaga ».

Il medico militare, Antonio Restelli, che aveva applicato per ben 154 volte un ferro rovente su le carni dello sventurato Antonio Cappello per costringerlo a parlare, venne decorato con la croce dei Santi Maurizio e Lazzaro.

Non sappiamo se la stessa decorazione ebbe il tenente Dupuy, savoiardo, per una brillante ed eroica operazione eseguita nel territorio delle Petralie. « Questo ufficiale — dice ancora Colaianni —si presentò, di notte, con gli uomini della sua colonna, in una casina, i cui abitatori, temendo dei briganti, non vollero aprire. Allora il prode militare la circondò di fascine, vi appiccò fuoco e fece morire soffocati i disgraziati che legittimamente resistettero ai suoi ordini ».

Il deputato D'Ondes Reggio, presentando la proposta di inchiesta parlamentare su quanto avveniva in Sicilia (respinta, del resto, dalla Camera) affermava che nell'Isola si faceva strazio dello Statuto, delle leggi, della libertà e della vita dei cittadini; che padri, fratelli, sorelle, madri con i lattanti venivano buttati in carcere e ivi, con colpi di scudiscio, flagellati perché i loro figli e fratelli erano renitenti di leva; che ad alcuni di questi infelici erano stretti i pollici con un nuovo strumento di tortura « tanto che sguizzasse il sangue e la carne, e giungesse fino alle ossa » ; che colonne mobili, in molte province, assediavano con violenza selvaggia paesi e città...

Un episodio: il comandante di un battaglione di fanteria, il maggiore Frigerio, arriva a Licata, l'assedia e fa pubblicare per le strade della cittadina che « se i renitenti non si fossero costituiti alle ore 15 dell'indomani, avrebbe tolto l'acqua alla popolazione e ordinato che nessuno potesse uscire di casa sotto pena di fucilazione ».
Soltanto l'intervento del viceconsole inglese e la dimostrazione della guardia nazionale ottennero che il maggiore desistesse dal togliere l'acqua al paese e dal fucilare i cittadini che fossero usciti di casa.

Ed ecco una cronaca del tempo, pubblicata dal giornale « II Contemporaneo » di Firenze, e riferentesi a soli nove mesi: Morti fucilati istantaneamente 1.841; morti fucilati dopo poche ore 7.127; feriti 10.604; imprigionati 19.741; sacerdoti fucilati 22; case incendiate 918; paesi incendiati 5; famiglie perquisite 2.903; chiese saccheggiate 12; ragazzi uccisi 60; donne uccise 48.
Non fa più meraviglia se a queste popolazioni, trattate con inaudita inumanità, il fìsco togliesse, poi, ogni possibilità di vita materiale. In pochi anni, infatti, in Sicilia, i fondi espropriati raggiunsero il numero di almeno venti mila. Si vide il fisco vendere case e terreni per 5 lire, spesso per meno di 5 lire!

Quale paese coloniale ha pagine più dolorose?

E allora si comprende che Massimo D'Azeglio, piemontese, ma coscienza equanime, esclamasse: « Nessuno vuole saperne di noi... Siamo venuti in odio a tutti e tutti sono divenuti nostri nemici ».

E a Massimo D'Azeglio fanno eco:
Garibaldi che scrive ad Adelaide Cairoli: « Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male, nonostante ciò. non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio ».
E Crispi: « La popolazione in massa detesta il governo di Italia, che, al paragone, trova più tristo del Borbone ».
E il conte Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, piemontese: « Nobili, plebei, ricchi, poveri, clericali, atei, tutti aspirano ad una prossima restaurazione dei Borboni ».
E Settembrini ha queste tremende parole: « La colpa fu di Ferdinando II, il quale, se avesse fatto impiccare me ed i miei amici, avrebbe risparmiato all'intero Mezzogiorno tante incommensurabili sventure ».

Questo, per la Sicilia, fu l'inizio dell'Unità.

Il seguito è stato degno di tanto inizio. L'Isola nostra è stata sempre considerata e trattata come una colonia.

Oppressione e sfruttamento.

Negli anni successivi al 1867, osserva Enrico La Loggia, il continuo drenaggio di capitali siciliani, iniziatosi con la vendita dei beni ecclesiastici (che fruttò più di un miliardo di allora e che andò tutto al Nord), proseguito ed aggravato da oppressivi tributi, il pompaggio dei depositi delle casse postali utilizzati al Nord e il soffocamento delle industrie impoverirono sempre più l'Isola.

Terra di conquista. Terra da sfruttare. Tutte le vessazioni e tutte le sottrazioni divennero ineluttabili.
In Sicilia si producevano 1.300.000 chilogrammi di tabacco; dopo una legge iugulatrice, non se ne produssero che 400.000. Così per il cotone, così per qualsiasi altra espressione della nostra attività economica.

Lo zolfo siciliano fu ostacolato in mille modi: per molto tempo costretto ad estrarsi entro certi limiti e a vendersi entro dati prezzi, mentre quello della Romagna era lasciato libero sia nei prezzi, sia nella quantità.

E si potrebbe continuare per pagine e pagine.

E sempre con fatti precisi. Con cifre. Fatti e cifre che ci tentano.

Ecco:
Maffeo Pantaleoni, nel 1891, provò che il Mezzogiorno contribuiva assai più del Settentrione alle entrate dello Stato, e precisamente avendo il 27% della ricchezza nazionale, pagava il 32% delle imposte.

Il lombardo R. Benini calcolò che lo Stato in Sicilia su 100 di entrate tributarie ne spendeva appena 67, mentre in tutte le altre regioni ne spendeva 103.

Il Bruccoleri dimostrò che per opere di bonifica fino al 1884, mentre in tutta l'Italia si spesero 40 milioni, in Sicilia si spesero... 27 mila lire; e che dal 1886 al 1910 si spese in Sicilia, decima parte del regno, il 2.5 per cento della somma spesa in tutta Italia.

E potremmo parlare del grano duro (22 miliardi l'anno sottratti all'economia siciliana), e delle strade e delle ferrovie e delle tariffe ferroviarie e delle imposte sui terreni (con uguale produzione agricola vendibile, il Piemonte paga 5 miliardi, la Sicilia 11 miliardi), e del disboscamento e della scomparsa della flotta mercantile e della scomparsa delle industrie (1860: in Sicilia addetti alla industria il 38% degli attivi, mentre in Piemonte e in Liguria erano appena il 17%; ora, invece, secondo l'ultimo censimento, nel solo Piemonte gli addetti all'industria sono saliti al 31 % mentre in Sicilia sono scesi al... 15%).

E potremmo parlare anche della politica doganale, della politica dei lavori pubblici, della politica che determina la ripartizione territoriale delle pubbliche spese; potremmo parlare delle scuole, dei servizi sanitari.

E ancora: della bilancia commerciale italiana e siciliana e a che cosa sono servite e servono le valute pregiate ottenute dalle nostre esportazioni (1957: saldo attivo della bilancia commerciale siciliana, 29 miliardi 78 milioni di lire), dai turisti stranieri venuti in Sicilia (1957: 10 miliardi di lire), dagli emigrati.

Ed ancora. 1946: a) gli zolfi siciliani restano bloccati nell'Isola; b) divieto, per la Sicilia, di lavorazione dello zolfo. I produttori di zolfo del Nord, invece, hanno : a) come mercato tutta la penisola; b) la facoltà di molire lo zolfo.

Nello stesso anno; i vetri della fabbrica Maiolino di Palermo non possono andare nel Continente, mentre i vetri delle fabbriche del Continente hanno diritto di libera entrata in Sicilia.

E potremmo parlare anche della Cassa del Mezzogiorno che della dotazione di 1.280 miliardi, avuta nel 1952, avrebbe dovuto darne alla Sicilia il 42%, e invece ne ha dato appena il... 20,12%; delle autostrade; del casinò di Taormina («no» alla Sicilia, ma « sì » al Nord: Venezia, San Remo, Saint-Vincent); dello Statuto siciliano, che sta diventando un chiffon de papier...

Per pagine e pagine, potremmo continuare con semplici elenchi: la lista è lunga, molto lunga. Cen to anni di soprusi, di angherie, di ingiustizie, di oppressione, di sfruttamento, che hanno dissanguato la Sicilia, che l'hanno resa spaventosamente depressa.

Sfruttamento che continua.

« Cari Siciliani — scriveva con profonda tristezza don Luigi Sturzo a proposito degli aiuti americani — è inutile che vi illudiate. Non avrete nulla. Tutto sarà inghiottito dal Nord, dalle industrie parassitarie del Nord. Non avrete nulla ».

Nulla? No, qualcosa riceviamo: insulti. Ecco: appena noi chiediamo quello che per legge ci si .deve, quello a cui abbiamo diritto, ci si risponde che noi facciamo dell'accattonaggio...

Le mani di tutti quei generosi figli della Sicilia, nobili e popolani, che nelle lotte contro il Borbone sacrificarono la vita per l'Unità italiana sognando un avvenire di libertà, di fratellanza e di comprensione, debbono fremere di indignazione.

Eppure, c'è qualcosa che supera tutte le ingiustizie, i soprusi, le vessazioni che in cent'anni han ridotto « depressa » la Sicilia, e che è stato un abominevole attentato alla coscienza siciliana.
L'impegno, cioè, di strappare dall'animo popolare la coscienza delle sue nobili tradizioni, della sua storia meravigliosa.

Quando si vuole opprimere e sfruttare compiutamente un popolo, il metodo più sicuro è appunto di cancellare dalla sua mente ogni ricordo di grandezza e di lotte sostenute per la libertà, segno inconfondibile di una civiltà superiore; e di far penetrare nel suo spirito la convinzione di essere sempre stato, nella storia, un miserabile, spregevole oggetto, e mai soggetto.

Applicando questo metodo, si sono impegnati ad oscurare a poco a poco la coscienza siciliana, una volta così fiera e gelosa delle istituzioni, dei costumi, delle tradizioni, della secolare autonomia e delle franchigie costituzionali isolane. Oscurare la coscienza fino a farle dimenticare la sua storia, che è storia stupenda.

Chi ricorda più che in Sicilia sorse il primo Stato della Cristianità e che « Palermo fu per molto tempo, come scrisse Renan, la capitale politica, economica, intellettuale dell'Europa? »

Chi ricorda che « l'Università di Palermo, nei primi anni del 1800, poteva rivaleggiare con quelle delle prime città di Europa per rinomanza e celebrità di professori? Che Palermo possedeva un Gabinetto di Fisica, un Teatro Anatomico, un Laboratorio di Fisica, un Museo di Antichità, un Orto Botanico, una Specola, che erano divenuti celebri in Europa? »

Chi ricorda più che Vittorio Amedeo partendo dall'Isola condusse con sé insigni Siciliani che aprirono al Piemonte, in ogni campo, quelle vie del progresso, che sempre gli erano state precluse. « La Sicilia — confessa Carlo Botta — mandava al Piemonte generosi spiriti per mondarlo dalle male erbe che in troppa gran copia vi erano cresciute ».

Oscurare la coscienza fino a farci dimenticare la nostra storia, che è storia stupenda.
E affinchè questo oscuramento fosse completo sì da diventare buio totale, si inventò la teoria della razza inferiore. Il Niceforo rivelò ai Siciliani che essi appartenevano ad una razza inferiore, mentre gli abitanti del Nord appartenevano alla razza superiore... L'oppressione e lo sfruttamento, quindi, dei primi, cioè dei Siciliani, diventava lo esercizio di un diritto naturale da parte di quelli della razza superiore!

Se questa teoria fu confutata scientificamente, essa rimase norma politica.

E si comprende, allora, l'abiezione della borghesia siciliana, che, perduta la vera fierezza e l'orgoglio della sua terra, e posseduta solamente da libidine di servilismo, è felice di genuflettersi davanti a quelli del Nord per averne attestati di... rispettabilità; è felice di strofinarsi agli affaristi del Nord, ai quali, con fare e intenti di mezzano influente, facilita, nella martoriata Sicilia, ogni impresa di rapina; è felice, per maggiormente distinguersi nella scala servile, di collaborare con quelli che opprimono il popolo.

E come si comprende anche che i nostri fratelli siciliani che vanno al Nord in cerca di un tozzo di pane, in quel Nord che le loro sofferenze hanno arricchito (« si subordina la fame del Mezzogiorno alla sazietà del Settentrione », si legge nel Bollettino economico del Banco di Sicilia del 1947) tentano di nascondere come una vergogna la loro origine isolana.
E forse non tutti i Siciliani che si son sentiti dire « lei non sembra siciliano », hanno avvertito il sanguinoso oltraggio che c'è nel... complimento.

Noi, ne abbiamo sempre risentito dolore e umiliazione.

« Lei non sembra siciliano... » Per codesti signori il Siciliano è un miserabile Negro (e chiediamo scusa ai nostri fratelli Negri) che per uno scherzo di natura è venuto al mondo con la pelle bianca.
Ecco il calvario che la derelitta Sicilia è stata costretta a salire in cent'anni di Unità.
— Ma, allora, — ci si dirà — voi non festeggerete il centenario?
— No. Noi non festeggeremo questo centenario. Sarebbe l'estrema abiezione benedire ed esaltare la via che ci ha condotti alla più spaventosa depressione nel campo materiale e, ciò che più conta, nel campo morale. Solo da servi che hanno perso ogni residuo di dignità, si potrebbe esigere una cosa simile.
— Allora, siete separatisti?
— No. Non siamo separatisti, malgrado questa realtà unitaria italiana ci spinga con tanta violenza ad esserlo. Diremo meglio: appunto perché non separatisti, noi ci rifiutiamo di festeggiarlo. La Unità, infatti, — come ha scritto un grande Siciliano — non è stata che il trionfo del più bieco separatismo: un separatismo di ingorda speculazione, che ha diviso l'Italia in due zone, perfettamente distinte, con un'azione giammai interrotta in danno del Mezzogiorno e della Sicilia in modo particolare.

Noi siamo unitari. Sinceramente unitari. In senso italiano ed europeo. Le divisioni, oggi, non hanno senso. Sono deleterie. Ma « l'esistenza di una nazione, come scrisse Renan, è un plebiscito di ogni giorno, come l'esistenza di un individuo è l'affermazione quotidiana della sua vita ».
E « il plebiscito di ogni giorno » ha esigenze che oggi non sono soddisfatte. E che noi intendiamo siano soddisfatte. Oggi esiste l'unità materiale. Ma l'unità morale, quella che più conta e che noi vogliamo innanzitutto, non esiste affatto. O. almeno, non c'è fra la Sicilia e l'Italia.

Diciamolo sinceramente, cè... Oh no! Non vogliamo dire le parole che non permettono più nessuna speranza. Diciamo semplicemente che non c'è amore.

E allora, il 1960, che per noi non può essere data di lieti ricordi, noi dobbiamo trasformarlo in una data che segni una speranza. Meglio, un proposito: riprendere il cammino là dove Garibaldi lo interuppe.
Meglio: là, dove Garibaldi e i Siciliani furono costretti ad interromperlo.
La giovane Sicilia, che disperatamente lotta per conquistare condizioni di vita civile, vuole celebrare il centenario dell'Unità alla sua maniera.

Alla sua maniera!

Niente, quindi, disgustosi spettacoli di retoriche false e bugiarde, ma decisa volontà di percorrere in poco tempo il cammino che altri han percorso in cent'anni. E perciò, dando rigoroso bando alle chiacchiere e agli sperperi, tendere tutte le nostre energie per raggiungere rapidamente il meraviglioso fine di « cambiare » la Sicilia.

E ciò sarà l'inizio della vera Unità.
Il cammino sarà aspro, difficile.

Le maggiori difficoltà saranno date non tanto dal secolo di ritardo, quanto da quel complesso coloniale che sono riusciti ad inoculare nel nostro sangue, complesso coloniale che svirilizza, che rende scettici, apatici, diffidenti, vili. E quindi, incapaci di credere in qualche cosa, che vada oltre il meschino « arrangiamento » di una grama esistenza; incapaci di una vita associata e di un lavoro modernamente organizzato e disciplinato; incapaci di ardite iniziative e di impostazioni autonome dei problemi siciliani; incapaci di osare... Osare?... incapaci del più leggero anticonformismo per timore d'un possibile rischio, ancorché minimo.

Scrollarsi di dosso questo funesto mortale complesso coloniale è il primo nostro compito. E' la condizione necessaria e indispensabile per rinascere, più esattamente per nascere, alla vera vita unitaria, che esige rapporti di uguaglianza e non di sudditanza.
Non ci stanchiamo di dirlo, di ripeterlo.

Nella vita occorre credere in qualche cosa che comporta sacrificio, stabilire feconde correnti di fiducia reciproca, e sopratutto occorre, col conforto di una profonda solidarietà, osare ed essere tenaci.

E noi ci rivolgiamo sopratutto ai giovani. Condannando questo secolo di servilismo, di passività, di rinunce, di conformismo, di viltà, essi debbono essere i primi ad acquistare questa nuova coscienza impegnandosi seriamente ad approfondirne i motivi.

Settembre-ottobre 1959

Fonte: Meridio Siculo no. 115

2 commenti:

Anonimo ha detto...

La pluri-millenaria nazione Siciliana non ha niente in comune col l'italietta tranne che 148 anni di schiavitu` sotto gli italici. La nostra storia millenaria ci insegna che la Sicilia e i Siciliani sempre aspirano ad essere indipendenti!!!! Quello che sta iniziando adesso non e` altro che l'inizio della nostra riscossa di popolo e nazione verso la nostra vera liberta di popolo e nazione Siciliana!!! Non dobbiamo dimenticare che noi Siciliani siamo gli eredi di Cicalo,Ducezio,Dionisio, Archimede, Empedocle, Euno, Ruggero I, Ruggero II, Federico II, FedericoIII, Ruggero Settimo, Verga, Bellini e tanti altri grandi Siciliani. Viva La Sicilia ed Il Popolo Siciliano!!

Anonimo ha detto...

viva la nazione siciliana sempre,-
Associazione culturale "TRINAKRIA"
Sez. Ducezio di Gela.-